Persino Togliatti, che pure sapeva come farsi obbedire, dopo il 7 giugno 1953 che aveva consentito al Pci di fermare la Dc e i suoi alleati impedendo loro di superare il quorum del 50,01 per cento, insegnava ai suoi dirigenti che il partito comunista doveva ormai procedere sul cammino del “rinnovamento nella continuità”, evitando ogni forma di radicalismo. Egli, infatti, prendeva atto che, dietro una apparente vittoria, c’era la realtà di un Pci che era risultato minoritario e rischiava di ritrovarsi senza più l’intesa col socialismo di Nenni.
Il capo indiscusso del Pci era così consapevole della enorme importanza, per un partito comunista, di non assumere arie e comportamenti di sufficienza, di assecondare una politica di alleanze per tentare di raggiungere i propri obiettivi e di distinguere la propaganda dal progetto possibile. Nel novembre 1947, a Giancarlo Pajetta che gli telefonava di avere occupato la prefettura di Milano, gli diceva gelido: “E adesso che te ne fai?”.
Stupisce, quindi, che dopo tanti anni di militanza comunista e postcomunista, da capo di un Pd che il 23 febbraio si sentiva arcisicuro di trovare nelle urne, l’indomani, una maggioranza veleggiante sul 38 per cento, Bersani non si sia ancora reso conto che il suo partito ha perso nei due giorni elettorali circa 5 milioni e mezzo di voti, risultando secondo partito in graduatoria e con lo schieramento antagonista praticamente equivalente quanto a rappresentanza di popolo nelle istituzioni. Addirittura infantile risulta la sua intimazione al primo partito di accettare subito un governo minoritario guidato dal Pd, o meglio da lui stesso, pena l’immediato ricorso ad una nuova consultazione per il mese di giugno.
Rilevo quest’ultimo ultimatum – o penultimatum – di Bersani a Grillo per il semplice motivo che anche l’ultimo degli eletti del Movimento 5 Stelle sa che lo scioglimento di una o di entrambe le camere non compete a nessun capo partito, ma solo ed esclusivamente al capo dello Stato: il cui attuale titolare – favorevole peraltro a dare un minimo di stabilità e di efficienza alle istituzioni, a cominciare dall’esecutivo – non è nelle condizioni costituzionali per decretare lo scioglimento del parlamento.
Perciò, come gli avrebbe consigliato Togliatti, Bersani farebbe bene a darsi una calmata, a non minacciare sfracelli che potrebbero costargli ancora più cari della “non vittoria” del 24-25 febbraio e che in ogni caso aggraverebbero al diapason un quadro politico già fin troppo complicato.
Qualche consigliere del segretario, anziché suggerirgli di fare in Italia ciò che ha fatto recentemente la Grecia, dovrebbe consigliargli d’essere più cauto, di non dimenticare che il Pd le elezioni non le ha vinte e si ritrova con 150 deputati in più per un miracolo dovuto ad un porcellum che ha voluto tenacemente fosse mantenuto e che, inevitabilmente, tornerebbe ad essere riusato ove si votasse a giugno: mantenendo il dubbio che, la prossima volta, a beneficiare di un premio di maggioranza così alto potrebbe non essere il Pd, bensì il gruppo berlusconiano antagonista o, peggio ancora, il movimento grillino.
Conviene all’Italia rischiare soluzioni avventuristiche? Persino Togliatti risponderebbe: no.