Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi comparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi
La scorsa settimana, al Consiglio europeo, Mario Draghi non ha fatto sconti alla sua Italia. La crescita della produttività italiana è al palo da un decennio e spiega in buona parte il decremento nel Pil cumulato registrato nello stesso periodo. I fattori produttivi italiani producono meno prodotto finale di quelli degli altri Stati membri dell’eurozona a parità di impiego orario.
Perché? C’è, forse, in Italia un capitale umano meno preparato e capace in media di quello portoghese? Dispone l’Italia di un accesso meno ampio e diretto della Spagna o dell’Irlanda alle tecnologie necessarie per produrre? C’è, nel Belpaese, una minor capacità di organizzare al meglio i diversi fattori produttivi rispetto alla Germania? Niente di tutto ciò. Il problema della endemica scarsa produttività italiana ha un nome e un cognome: una novecentesca e superata contrattualistica del fattore lavoro.
I tedeschi hanno una produttività che sostiene il loro export e fa accumulare un surplus robusto alla bilancia commerciale, che nel 2012 ha raggiunto quota 188 miliardi, il dato più alto dal 1950 anno nel quale sono iniziate le rilevazioni, perché da anni ormai hanno legato la contrattazione del lavoro ai risultati delle imprese. Se cresce la produttività e l’impresa guadagna in competitività, una quota del guadagno viene retrocessa ai dipendenti, altrimenti no. Un sistema contrattuale pensato per premiare il merito di chi lavora bene e offre un contributo misurabile al successo dell’azienda. Perfino la rivalutazione delle pensioni, in Germania, è legata all’andamento della produttività nazionale, un modo chiaro come la luce del sole per far partecipare tutti al destino economico nazionale: essere produttivi per essere competitivi e poter esportare al meglio.
In Italia la disciplina dei contratti di lavoro è bloccata alle logiche dello secolo scorso per una atipica cultura sindacale. Produttività fa rima con merito, qualora venga declinata a livello microeconomico cioè a livello di singola organizzazione produttiva. Una declinazione che svilirebbe il potere negoziale dei sindacati che, invece, preferiscono conservare i contratti nazionali di categoria come unico involucro di ogni regolamentazione del fattore lavoro. Un unico calderone indistinto nel quale affoga la competitività italiana. La Cgil guidata da Susanna Camusso ha eretto ogni tipo di barricata possibile per impedire che la contrattazione scendesse verso il basso a livello di singola impresa. Se ora l’Italia ha meno produttività di Spagna e Portogallo non deve sorprendere, la Camusso la costringe a competere nel mondo globale con le regole buone, forse, nel ‘900.