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Il dramma della Siria raccontato da Medici Senza Frontiere

Poco più di due anni di guerra e un Paese intero prigioniero del caos e delle violenze. Secondo le stime dell’Onu il conflitto in Siria ha provocato oltre 70 mila vittime. Intanto la catastrofe umanitaria prosegue. La situazione sul campo è cristallizzata. Le forze governative e i ribelli non hanno la forza per prevalere mentre la diplomazia internazionale è impotente davanti a una guerra che si combatte sul territorio siriano ma che riguarda l’intero Medio Oriente e i futuri rapporti di forza nel mondo arabo. Intanto il Paese sprofonda in una spirale di violenze.

“In Siria ho visto i feriti, la morte e la paura. Il senso di impotenza e sfinimento davanti alle violenze che attanagliano la popolazione”, racconta Fausta Micheletta, medico romano che da anni collabora con Medici Senza Frontiere. Il conflitto fratricida siriano ti resta dentro dopo un mese trascorso nel Nord est del Paese, zona controllata dall’opposizione, in un ospedale a 35 chilometri da Idlib, vicinissimo alla linea del fronte. Le terribili ferite causate dai bombardamenti non sono le uniche difficoltà. “Bisogna adattarsi ad operare in un mondo con una cultura differente. E’ anche una questione di sicurezza. Ho sempre lavorato con i capelli coperti, anche all’interno della casa uomini e donne del team MSF dormivano in stanze diverse. Non c’erano alcolici. Quando arriva una donna ferita, prima di spogliarla, chiedi sempre al traduttore di voltarsi. C’erano già tanti problemi medici, inutile crearne altri”.

Medici Senza Frontiere lavora in tre ospedali nel nord della Siria, in aree controllate dai gruppi armati dell’opposizione. Nonostante le continue richieste non ha ancora ricevuto l’autorizzazione da parte del governo siriano a entrare nelle aree controllate dal governo per fornirvi assistenza. Le équipe mediche forniscono cure d’emergenza, chirurgia e assistenza materno-infantile. Tra giugno 2012 e l’inizio di gennaio 2013, hanno effettuato più di 16mila visite ed eseguito oltre 1300 interventi chirurgici.

“Sono stata in Costa d’Avorio e in Sri Lanka- racconta la dottoressa romana- ma la Siria è stata diversa. “Non vedi i bombardamenti, ma li senti e sai che stanno per arrivare i feriti”. In Siria “la guerra mi è piombata addosso all’improvviso, dal primo istante. Appena passata la frontiere con la Turchia, “dal finestrino dell’auto vedi una sterminata distesa di tende bianche in mezzo al fango”. Sono i siriani che scappano dalla guerra, “stipati anche in venti per tenda” che cercano protezione ammassandosi lungo il confine turco. “Quella è già guerra e lo capisci quando arriva in sala operatoria un ragazzino con il corpo ricoperto di gravissime ustioni”. Il carburante scarseggia e per proteggersi dal freddo pungente si usa un combustibile instabile e pericoloso. L’esercito regolare siriano ha pesantemente colpito Idlib e i villaggi circostanti per mesi. “Ogni pomeriggio il regime bombardava, la gente era costretta ad uscire per andare al forno a fare la fila per il pane o a cercare il latte in polvere che scarseggiava. Per questo i bombardamenti facevano sempre feriti che, poi, arrivavano da noi. “Così ci ritrovavamo ondate di feriti ogni giorno. Bisognava agire in fretta, stabilire le priorità. Stabilizzare tutti i pazienti e decidere chi operare presso il nostro ospedale e chi trasferire in Turchia, sempre con il dubbio che un’altra ondata di feriti fosse in arrivo”.

Ma la guerra non è solo sangue, morti e macerie. E’ anche paura, impotenza. “Ricordo la disperazione dei genitori che davanti alla bombe, davanti ai loro bambini, feriti realizzano di non poter fare nulla per garantire l’incolumità dei propri figli”. La guerra è così, te la porti dentro. Per sempre. “L’ho capito quando sono tornata a Roma. Lontana migliaia di chilometri dalla Siria e dal presidio medico, una volta a casa, i primi giorni, ogni volta che sentivo il rumore degli aerei guardavo il cielo. Sentivo lo stesso misto di paura, agitazione e l’istinto di cercare un rifugio”.


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