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E se il gas sbrogliasse la matassa cipriota?

Intrappolati in una contrapposizione Nord-Sud che non rappresenta l’interesse strategico di lungo termine dell’Europa, rischiamo di perdere il quadro più ampio della crisi cipriota, come in precedenza è accaduto per la Grecia. E invece Russia e Stati Uniti, allenati a svolgere politiche imperiali a tutto campo, non perdono un colpo.

Il gas è ancora “oro blu”
Nel mix energetico mondiale, a causa soprattutto del forte aumento della domanda dei Paesi emergenti, le fonti fossili (petrolio, gas e carbone) continueranno a rappresentare un ingrediente fondamentale del consumo, passando dal 81% nel 2010 al 75% nel 2035, quindi perdendo solo sei punti percentuali a fronte dell’aumento delle rinnovabili. In questo quadro il gas crescerà di peso, passando dal 22 al 24% nel periodo 2010-2035. Il problema dal punto di vista della sicurezza è che circa l’80% delle importazioni di gas naturale in Europa (dati 2010) dipende da solo tre fornitori, Algeria, Russia e Norvegia. Di questi, a parte le minacce interne alla stabilità dell’Algeria (posta sul crinale tra Nordafrica post-primavera e Sahel “fondamentalista”) è Mosca ad aver dimostrato ampiamente, con gli accordi russo-cinesi di qualche settimana fa, di poter “girare” importanti flussi ad est e di avere così accresciuto il proprio potere di mercato nei confronti dell’Europa.

Il linkage gas-debito
Chi pensi però ad una riedizione della corsa ai gasdotti euroasiatici di inizio millennio potrebbe restare deluso. Nell’incertezza che circonda l’andamento di mercato e le variabili geopolitiche connesse, fare investimenti in strutture rigide, vincolate ad una sola fonte, potrebbe essere controproducente. Quella sicurezza che ancora manca all’Europa andrà cercata, oltre che nell’efficienza e nelle rinnovabili, nella realizzazione di impianti di import flessibili, ovvero nei rigassificatori. E’ la tesi che è circolata ieri al convegno organizzato dalla Fondazione De Gasperi sulla sicurezza energetica in Italia e in Europa. La stessa che afferma, con riferimento alla “provincia gasifera” del Levante, Simone Tagliapietra della Fondazione Eni Enrico Mattei. Qui, tra Israele e Cipro, vi sarebbero gli ingredienti per lanciare un “Corridoio energetico del Mediterraneo orientale”: i campi “Tamar” (250 miliardi di metri cubi), “Leviathan” (476 miliardi di metri cubi) e “Afrodite” (140-220 miliardi di metri cubi). I primi due sono nelle acque israeliane e il secondo in quelle cipriote.

La miopia della Ue
Secondo Tagliapietra, “senza un forte impegno israeliano ad esportare”, l’opzione del Corridoio appare “molto difficile”. Per l’Europa sarebbe un’occasione storica mancata. Secondo Giles Merritt, del think tank Friends of Europe, la gestione tutta contabile-finanziaria della crisi economica cipriota dimostra un’incredibile miopia. Il giacimento di Afrodite vale 80 miliardi di euro, una ricchezza che “ridimensiona le attuali difficoltà finanziarie del Paese”, tanto che i 17 miliardi di euro del pacchetto “devono essere messi nel contesto dell’attuale problema energetico europeo”. Merritt nota poi che Israele ha già offerto la disponibilità a investire in un impianto di liquefazione di gas a Cipro, per un valore di 10 miliardi di euro.

La connection israeliana
Cipro è il lembo più orientale dell’Unione europea ma anche il più occidentale di una lunga catena che parte dall’Indonesia, passa per l’India, l’Iran e giunge in Israele. Questa “quattro I” sono destinate a coagulare la politica di sicurezza nell’area, strategica per il funzionamento del mercato mondiale, posta tra gli accessi al Pacifico e il Mar Rosso. Non “afferrarla” da parte europea sarebbe un grave errore. Non solo dotandosi di rigassificatori, ma anche coinvolgendo Israele sul lato politico generale. Gli Stati Uniti lo sanno, e per questo la visita di Obama segna un punto a loro favore con la riconciliazione tra Ankara e Tel Aviv. Secondo Ely Karmon, dell’Istituto per il controterrorismo di Herzliya, si tratta di un accordo necessario per la Turchia nella misura in cui deve gestire rapporti complessi e ostili con l’Iran sia in Siria che in Irak.

Triangoli pericolosi a Sud
Il triangolo Siria-Irak-Israele dove è più intenso il confronto militare, si sovrappone a quello Turchia-Arabia Saudita-Pakistan che è il tradizionale perno della presenza americana nel Medio Oriente. E’ da notare che Israele, Iran ed India – tre “I” della dorsale – sono rivali dei “perni” filoamericani, e potrebbero perciò ipoteticamente costituire la base di una nuova architettura di sicurezza sud-asiatica, concordata con Washington e Bruxelles.
Sempre che quest’ultima batta un colpo e non si limiti, come denuncia Merritt, a “contare i fagioli” nelle casse di Nicosia…


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