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Il silenzioso tramonto di Cindia

I segnali si vedono, chiari e forti, ma non se ne parla, come se la grancassa suonata in tutti questi anni abbia provocato una forma di pudicizia negli osservatori, che oggi voltano lo sguardo di fronte alla luce del tramonto dei due giganti d’Oriente, ossia Cina e India.

Eppure il destino di Cindia dovrebbe riguardarci, visto che sulla magnifiche sorti progressive del sub continente e della terra di mezzo i paesi ricchi hanno investito massicce dosi di ottimismo. O forse è proprio per questo che oggi, schiacciato dalla crisi e spaventato dal futuro, l’uomo d’occidente diventa pudico e guarda altrove.

Vediamoli questi segnali, dunque.

L’ultimo in ordine d’arrivo è l’analisi del Composite leading indicator point elaborato dall’Ocse, ossia l’indice che misura e anticipa il momento di ripartenza (o di stasi) di un’economia. L’indice parte da una base 100, superata la quale inizia la stagione di crescita.

Gli unici paesi che nel 2012 hanno superato questa linea sono stati il Giappone, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ossia quelli che stanno sperimentando notevoli allentamenti monetari. Il campione d’europa, ossia la Germania, ha registrato una crescita costante dell’indice, che quotava 98,7 nel settemebre 2012 e agennaio 2013 era già a 99,6, ma non sta ancora in ripresa. Persino l’Italia è migliorata, da 99 a 99,3, mentre la Francia è stabile a 99,5. Dati che fanno concludere all’Ocse che questi paesi sono alle prese con una ripresa già iniziata o in via di partenza, per la gioia di tutti.

Il discorso cambia quando andiamo a vedere i risultati dell’indice per India e Cina. L’indice per l’India quotava 98 a settembre 2012 e adesso è scivolato a 97,2, e la curva che ne raffigura l’andamento vira con decisione verso il basso. L’Ocse parla di crescita che va giù. Di poco diversa la situazione della Cina che, partita da un indice a 99,5 nel settembre 2012 è scivolata a 99 nel gennaio 2013. Una situazione che l’Ocse definisce di crescita moderata.

Stando così le cose si potrebbe pensare a una congiuntura sfavorevole, ma limitata nel tempo. Perciò ci siamo andati a leggere l’outlook 2013, sempre dell’Ocse, per l’intera regione del Sud Est asiatico pubblicato di recente, dove i tecnici hanno monitorato le economie dell’area con previsioni fino al 2017. Lo scenario che viene fuori non è rassicurante.

Relativamente alla Cina, la stagione della crescita a due cifre, quella fra il 2000 e il 2007 sembra ormai alle spalle. Per il quinquennio 2013-2017 l’Ocse stima un Pil medio intorno all’8%, che se è comunque un grosso risultato rispetto alle anemiche economie occidentali, è un chiaro segnale di rallentamento.

Lo stesso vale per l’India. Fra il 2000 e il 2007 la crescita media è stata del 7,1%. Per i prossimi cinque anni si andrà di poco sopra il 6%.

In comune i due giganti hanno che le previsioni preconizzano un rallentamento della domanda di beni dall’esterno. Ciò vuol dire che tutte le economie dell’area, nella quale Cindia fa la parte del leone, dovranno fare i conti negli anni a venire con un calo dell’export destinato a cambiare il volto delle loro economie export-led.

La crisi d’Occidente, insomma, fa venire meno i consumi e quindi le importazione dall’estero, ed è giocoforza che a pagarne il prezzo più salato siano le economie che sui consumi insaziabili dei paesi ricchi hanno costruito le loro fortune.

L’Ocse prevede infatti che i driver della crescita nell’area del Sud Est asiatico saranno sempre più i consumi interni, e gli investimenti, piuttosto che la domanda di beni dall’esterno.

In particolare, l’Ocse stima che i governi dell’area dovranno sempre più investire sui welfare locali e sulle infrastrutture, da un parte, mentre la crescita di ricchezza garantirà una crescita dei consumi interni, e quindi della importazioni.

Tale cambiamento, che non è esagerato definire epocale, dovrà fare i conti con le enormi disparità che ancora si annidano in questi grandi paesi, dove la crescita della classe media, ormai irrefrenabile, contribuirà sempre più a squilibrare le bilance dei pagamenti, con conseguenze dirette sulla crescita del Pil.

Sempre che i governi riescano a sanare alcune inefficienza strutturali che riguardano la capacità di riscuotere le imposte, il flusso dei capitali esteri e la gestione delle tuttora corposa “dollarizzazione” degli scambi interni, che falsa notevolmente il monitoraggio dell’inflazione.

Su questo scenario grava l’incognita del fuuro dell’America. Se la crescita ripartirà al galoppo negli Usa, anche i paesi asiatici non potranno che giovarsene, ma è evidente che ormai non potranno sottrarsi alla necessità di irrobustire la propria domanda interna per garantirsi lo sviluppo.

Una lezione che Cindia sembra aver compreso.

A differenza di quanto accade in Europa.


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