Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La Settimana Santa

Mi dicono che oggi, domenica delle Palme, le chiese a Torino sono state stracolme di fedeli. Non c’era posto. Sarà l’effetto del nuovo Papa, chissà. O forse semplicemente perché nei Centri Commerciali, di questi tempi, beh se non hai da spendere, che vai a fare.
Ho pensato quindi di regalare ai miei numerosi lettori questo spaccato di settimana santa. In piedi.

Il Giovedì Santo è il giorno ru Patri a Culonna.
Alle otto di mattina giù dal letto. Veloce. Doccia, colazione, abiti eleganti a festa e giù per le scale. Il nonno è già pronto. Canticchia, seduto allo scrittoio. L’aria sa di acqua di colonia che il nonno non ha risparmiato.
Il nonno è Spaccafurnaru. Ispica, per le minoranze linguistiche. E l’identità ispicese sta, per larga parte, nella devozione verso il Padre alla Colonna, simulacro del Cristo flagellato che, ogni Giovedì Santo, viene celebrato nella Chiesa di Santa Maria Maggiore. Chiesa che è Barocca, che è patrimonio dell’Unesco. Che è Basilica magnificata dagli affreschi di Olivio Sozzi, artista del settecento morto suicida il giorno che finì di dipingere la volta della navata principale. Chiesa che è più famosa per il Loggiato del Sinatra antistante la facciata, che fu set naturale per i film del neorealismo italiano. Il nonno, ogni Giovedì Santo, da sempre prendeva la macchina, vestito a festa, e andava ad Ispica.

Il Giovedì Santo è il giorno ru Patri a Culonna.
Il momento più emozionante della giornata è la scinnuta del simulacro alle 11 del mattino. Il simulacro, almeno nella parte della testa lignea del Cristo, risale a prima del terremoto del 1693 al quale è scampato intatto. Attorno ad esso i cavari hanno eretto la nuova Basilica dove i risparmi delle fatiche di schiene curve sui campi hanno fuso oro per farne campane.

– Nonno, ma noi siamo cavari?
– Si u nonnu .

Ti senti ribollire il sangue. Non sei un bambino qualunque. Sei cavaro. Come cavari sono i Fazzoletti Rossi, l’associazione dei portatori di Cristo, associazioni che testimoniano il legame indissolubile e difficilmente spiegabile tra cultura e folklore, tra tradizione e devozione. Tra passato e presente, tra cattolicesimo e paganesimo. Il loro colore d’ordinanza è il rosso porpora. Il colore del sangue versato da Cristo. Il Cristo dei cavari è il Cristo uomo, il Cristo contadino che si spacca la schiena. Che fa sacrificio sulla sua carne. Che a cinquant’anni ne dimostra ottanta, di colui che italiano o straniero, spruzzando sudore e sangue sulla terra madre, legittima la sua esistenza di fronte a Dio padre.
A Ispica c’è una cospicua comunità di extra-comunitari, di giovani e meno giovani provenienti dal Maghreb che ad Ispica lavorano la terra. Sostituiranno nel tempo la manodopera locale i cui figli e nipoti hanno scelto il terziario del Nord come fonte di sostentamento. Forse, una cosa sbagliata. Cosa nel senso di ousia greco. Che sta per campicello ma che vuol significare, appunto, fonte di sostentamento.

Il nonno ama arrivare a Ispica molto presto, – massimo alle 9!- si raccomanda. Vuole sentire la banda suonare. Dalle 9 del mattino fino alle 11, il corpo bandistico “Giuseppe Bellisario” suona nel piazzale del Loggiato del Sinatra della Chiesa di Santa Maria Maggiore e per le vie principali di Ispica.

– Nonno perché ogni anno vuoi arrivare così presto ad Ispica?
– U nonnu, c’è la musica.
– Vedo che saluti sempre tutti della banda. Come fai a conoscerli tutti?
– U nonnu, una volta ne facevo parte anch’io. U papà è stato per anni maestro della banda di Spaccaforno.

Gli occhi del nonno si fanno lucidi. Il bisnonno, il padre del nonno, che non avevi mai conosciuto e che avevi visto solo in vecchie fotografie ingiallite, era stato maestro della banda di Ispica. Era più vecchio del Maestro Giuseppe Bellisario, musicista e compositore di fama nazionale, a cui si deve la composizione di diverse marce tra le quali quella, bellissima, dedicata per l’appunto al “Cristo alla Colonna”. E che Giuseppe Tornatore aveva scelto come parte della colonna sonora de “L’Uomo delle Stelle”.
Giuseppe Bellisario era conosciuto in tutta Italia. Nato a Licata, visse a Ispica fino alla morte. Musicista anche nella vita, ebbe sette figli. Uno per ogni nota musicale.

Ispica sorge su di un cucuzzolo. L’ hanno edificata lì i tuoi antenati, dopo il terribile terremoto che se l’è mangiata nel 1693. E’ come San Francisco in California. Calati e cianati. Il nonno parcheggia la macchina sempre nello stesso posto, in una calata laterale vicino alla Chiesa, ma con la fungia pronta a far rotta di ritorno a casa.

Il Giovedì Santo è il giorno ru Patri a Culonna.
La piazza è su due livelli. Un livello che è quello dell’interno della Chiesa e della sue navate che sono tre, e che termina, fuori dalle porte, su di un piccolo sagrato che è separato dalla piazza del Loggiato semicircolare, che è su di un livello inferiore, da una inferriata, che più Barocca non si può, e da alcuni scaloni. Ecco, sugli scaloni, quando arrivi, ci sono già stipati nonni e nipoti. Aspettano di sentire la banda suonare.

Il Giovedì Santo è il giorno  ru Patri a Culonna.
Il Corpo Bandistico “Giuseppe Bellisario” è un’istituzione a Ispica. In barba a tutti i programmi scolastici ministeriali, la cultura della musica e degli strumenti musicali è, ad Ispica, radicato nelle famiglie a prescindere dalle direttive centrali.
Alle scuole medie, ogni bambino sceglie il suo strumento e inizia a suonare. Se vuole continuare si iscrive alla Banda.
E così, la tradizione del corpo bandistico trae nuova linfa dalle nuove generazioni. Il vecchio e il nuovo, il nonno e il nipote. E la banda, che ha vecchi, giovani e giovanissimi è un posto dove i nonni e i nipoti possono trascorrere del tempo assieme. Dove la cultura non è solo musicale, ma un vero e proprio spartito sociale.

Il Giovedì Santo è il giorno ru Patri a Culonna.
E’ bello vedere anziani, spesso anche ignoranti, che conoscono la musica. La sentono. E che con il loro strumento, a volte un po’ sgangherato, a volte con la saliva che cola fino a terra, sono parte di una manifestazione culturale e folkloristica. Sociale e umana. Locale e identitaria.
E’ bello vedere anziani, spesso anche ignoranti, che pur non praticando la musica, la sanno apprezzare. Senza quello sfarzo della Prima a La Scala e di tutti quei culi di gallina impostati che nell’intervallo devono riposare l’espressione. E che, sulle note del Cristo alla Colonna, si mettono a piangere, commossi, per la bellezza di quella melodia che sa confortare la Madonna.
E’ bello vedere arrivare alle 9.05, trafelati, giovanissimi con i capelli portati all’indietro inondati da litri di acqua, che si rassettano ancora per strada il cravattino nero e il cappello rosso. E che il Maestro rimbrotta prima di poter finalmente iniziare.
C’è, in quella piazza, l’edificio sociale di un paese. In quella banda ci sono i fiori che sotto terra sono legati nelle radici. I fiori vecchi e quelli più giovani. Rossi come tanti garofani. E tanto più questi legami sono forti, tanto più difficile è minacciarli. Ecco il significato profondo delle radici. Le radici, che biologicamente sono le propaggini delle piante, quelle con cui queste traggono forza e sostegno dal terreno, diventano i segni distintivi che connotano un popolo. Quelle caratteristiche peculiari, locali, che identificano univocamente una comunità. In cui questa si riconosce e vuole riconoscersi. I nuovi abitanti di Ispica, venuti dal Maghreb, mediterranei e meticci, hanno fondato la loro integrazione con la comunità locale attraverso il lavoro nei campi. Per le radici sotto terra le schiene curve sotto al sole sono tutte uguali.

Il Giovedì Santo è il giorno  ru Patri a Culonna.
Festa dallo straordinario trasporto emotivo. Che sa essere straordinariamente cristiana e pagana al tempo stesso. E che, in quella sua capacità di essere sacra, è in grado di attrarre anche questi nuovi abitanti di Ispica che, seppur fedeli dell’islam, riconoscono in quel Cristo così umano anche il loro volto alla fine di una giornata trascorsa nei campi.

Il Giovedì Santo è il giorno  ru Patri a Culonna.
Alle dieci del mattino la banda lascia il Loggiato del Sinatra e, in formazione, muove verso le vie principali della città prima di ritornare nel Loggiato per le 11 quando ci sarà a Scinnuta. Il nonno mi invita a seguirlo all’interno della Basilica.

Entrando dal portone principale sulla destra c’è il tavolo del Comitato.

– Nonno, ma chi sono quelle persone?
– U nonnu, sono quelli che amministrano i soldi. I soldi delle donazioni.

Lungo le navate, sui capitelli che sormontano le colonne, stuccate a festa, si possono notare un susseguirsi impressionante di gambe, teste, braccia, petti. Di cera. Fanno impressione. Specie se i tuoi polmoni vengono invasi da un’ondata di incenso che rende, già nell’olfatto, l’idea della sacralità dirompente della Basilica.
Sono gli ex-voto. Le donazioni che i devoti fanno o Patri a Culonna perché da lui hanno ricevuto la grazia. Sono tantissimi.
Sul tavolo dei comitati vassoi enormi sono pieni di carta moneta. Pezzi di taglio importante. Il nonno lascia il suo contributo

– Nonno, anche tu. Quanto hai lasciato?

Il nonno non risponde. E quando non risponde vuol dire che è questione troppo seria, troppo intima di cui non si parla. Anche se ti dispiace che il nonno non ti mette a parte dei suoi pensieri, o di certe sue cose, intuisci di aver assistito ad un rituale privato, importante. Dentro di te stava formandosi anche la tua di identità. Sapevi che un giorno anche tu avresti ripetuto quel gesto. Che anche tu saresti stato zitto, tenendolo privato. Nascosto.

Man mano che si avvicinavano le 11, la Chiesa inizia a riempirsi fino a rendere impossibile muoversi anche di pochi centimetri. Il brusio cresce monotonicamente. Dalla porta laterale entra la bara portata a spalla dai portatori che si vanno a sistemare in corrispondenza della nicchia dove è custodito il simulacro del SS. Cristo alla Colonna.
I portatori lasciano partire delle urla che squarciavano il brusio di sottofondo.

– Chi nun purtamu a nuddu?
– Culonna! Culonna!

Le urla rendevano incomprensibile cosa dicessero. Il nonno ti aveva spiegato che l’anziano dei portatori, rivolgendosi a tutti gli altri, buttava il grido: – Non portiamo nessuno? – Cui tutti gli altri rispondevano: “Colonna, Colonna”.
La cosa si ripeteva più e più volte sempre più frequentemente. E’ il momento del parroco che recita una breve omelia. Quindi i fatidici due colpetti sul velo che copre l’immagine del simulacro. Di colpo, l’immagine sacra era svelata.
I portatori ricominciano a urlare, mentre fuori, nel Loggiato del Sinatra, la banda ha ripreso posto intonando la marcia del “Cristo alla Colonna”. Bombe grigie, come il cielo che si va velando per tirarsi al lutto del pomeriggio, fanno tremare tutta la Chiesa.

Tutti in lacrime. Gli adulti per tutto quello che non si vedeva, per tutto quello che si portavano e tenevano dentro, e per il quale chiedevano aiuto a Cristo. A quel Cristo martoriato. I bambini per tutto quell’impetuoso racconto di devozione che si stava consumando e che inondava i loro sensi: occhi e orecchi.

×

Iscriviti alla newsletter