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L’odissea ventennale del mattone pubblico

Sono il convitato di pietra di ogni discussione pubblica. Il Moloch che campeggia rassicurante sulle pagine dei giornali ogni volta che si parla di risanamento dello Stato. Rappresentano, insieme al cosiddetto patrimonio mobiliare, la ricchezza pubblica italiana calcificata da svariati decenni fra le pieghe del bilancio statale.

Sono gli immobili dello Stato.

Fateci caso: ogni volta che si parla di abbattere il debito pubblico, spuntano loro. Succede dagli anni ’90, e purtroppo l’esperienza sembra aver insegnato poco, visto che ancora l’argomento è gettonatissimo malgrado i guadagni siano stati assai al di sotto delle aspettative (e dei valori presunti) e presto bruciati dall’idrovora statale.

Quello che è rimasto di un ventennio di odissea, durante la quale il mattone pubblico ha attraversato qualunque prova degna di Ulisse, è un groviglio di norme più o meno confuse, una sterminata messe di metri quadrati pubblici ancora improduttivi, quando non direttamente a perdere, e una privatizzazione dei guadagni (a favore di pochissimi) associata alla consueta socializzazione delle perdite.

Capirete che sentire di nuovo parlare di “valorizzazione” degli immobili pubblici è quantomeno inquietante.

Cominciamo dalla domanda più semplice. Esattamente, quanti sono questi immobili? Anche qui, si potrebbero scrivere i classici fiumi di inchiostro. Noi abbiamo scelto una fonte (speriamo) attendibile, ossia l’indagine conoscitiva svolta dalla commissione finanza della Camera nei primi mesi del 2011 e terminata nel luglio dello stesso anno con una relazione di appena 24 pagine.

Qui troviamo solo una parte della risposta, ma è più che sufficiente per capire di che cifre stiamo parlando. Ossia quella relativa al patrimonio immobiliare dove lavorano i dipendenti pubblici o svolgono la propria attività le varie amministrazioni dello Stato.

Una buona parte di questo patrimonio è di proprietà. In particolare si tratta di 543.000 unità immobiliari di proprietà dello Stato equivalenti a oltre 222 milioni di metri quadrati, a cui si aggiungono 776.000 terreni, che equivalgono a 13 miliardi di metri quadrati.

Il dato interessante è che nel 92% dei casi le amministrazioni dello Stato usano immobili di cui sono proprietarie e solo nel 2% dei casi usano immobili messi a disposizione da altre amministrazioni (statali anch’esse). Poi ci sono diverse occupazioni senza titolo (lo Stato abusivo di se stesso) e per circa 2.000 immobili non è nota la data di scadenza delle locazioni.

Interessante vedere le destinazioni d’uso. Il 72% hanno finalità istituzionali, il 10% per fini residenziali, in gran parte relativi agli immobili degli enti di previdenza o dei comuni. Nulla dice la relazione del restante 18%. Quanto ai terreni, il 96% è utilizzato dai proprietari, cioé lo Stato, mentre la proprietà per circa il 98% è in mano ai comuni.

Questa gigantesca mano morta ha un valore importante, e questo spiega il costante pensierino che ci dedicano i soliti noti. Secondo stime effettuate dal ministero dell’economia e delle finanze, le unità immobiliari dovrebbero valere fra il 239 e i 319 miliardi di euro, i terreni fra gli 11 e i 49. Si va quindi da un minimo di 250 a a un massimo di 368 miliardi, tutto compreso.

A fronte di tutto ciò, lo Stato spende per affitti fra gli 800 e gli 850 milioni l’anno. Un raro caso di grande proprietario che paga degli affitti.

Questa montagna di ricchezza virtuale porta con sé la spiacevole controindicazione che questi immobili, come abbiamo visto, servono in larga parte alle amministrazioni dello Stato. Chi parla di valorizzazioni degli immobili pubblici, quindi, dovrebbe tenerne conto. Detto in soldoni: posso pure vendere una sede dell’Inps o di un ministero per spuntare qualche euro, ma poi quegli uffici dove li metto?

Anche qua, un breve viaggio nella storia recente aiuta. Fra il 2004 e il 2005 le sempiterne “esigenze straordinarie di finanza pubblica” costrinsero il governo dell’epoca a varare due fondi comuni di investimento immobiliare, ossia il Fondo immobili pubblici e il fondo patrimonio 1, dove furono conferiti a prezzi davvero convenienti 428 immobili pubblici utilizzate da amministrazioni dello Stato. Queste ultime furono costrette a siglare contratti di 9+9 anni, ai canoni dell’epoca (quando il mercato era ancora in pieno boom) per continuare ad abitare dove avevano sempre abitato gratis, andando così ad alimentare il capitolo delle locazioni passive.

In questo modo il mattone pubblico esce dalla porta, si privatizza, con ampia gioia di banche e sottoscrittori dei fondi, e rientra dalla finestra, sotto forma di affitto a caro prezzo con canone garantito dallo Stato, che giosamente paga.

Se poi andiamo a vedere cosa sia successo con le mitiche cartolarizzazioni Scip 1 e Scip 2 risalenti al 2001, la sostanza non cambia. Gli enti previdenziali si disfarono con poco guadagno e grandi spese di parte del loro patrimonio immobiliare. La Scip 1 finì bene, nel senso che si completarono le vendite. La Scip 2 finì male. Dopo aver tentato per anni di vendere tutti i 6,8 miliardi di beni cartolarizzati, lo Stato si dovette rassegnare a retrocedere all’Inps tutto l’invenduto, gravando i già traballanti conti immobiliari dell’istituto con una grossa fetta di mattone dal valore di circa 1,8 miliardi. La conseguenza è che adesso i rendimenti immobiliari dell’Inps sono negativi.

Stavolta, il mattone pubblico, uscito dalla porta, rientra dal portone. E lo Stato, anche qui, gioiosamente paga.

Come si vede, la storia non cambia. Dopo una lunga odissea, proprio come Ulisse il mattone pubblico torna a Itaca.

 Rectius: in Italia

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