In un’intervista ieri al Piccolo di Trieste, la prima probabilmente, il neo eletto Senatore del M5S Lorenzo Battista afferma che Trieste deve ripartire dal suo porto franco. La lettura mi suggerisce due riflessioni immediate che travalicano la realtà del Friuli Venezia Giulia. La prima, sull’immobilismo regressivo che domina il nostro paese, la secondo sull’abitudine altrettanto radicata a confrontarsi su di un piano ideologico, spesso senza aver nemmeno approfondito i dossier, piuttosto che sugli effetti delle cose. Non è detto infatti che i vantaggi del suddetto regime di porto franco non possano essere messi in discussione.
Questo, ad esempio, è avvenuto ad Amburgo, dove mi trovo da qualche giorno. Il Land, secondo porto container d’Europa dopo Rotterdam, numero quattordici al mondo per TEU movimentati – 8,9 milioni nell’anno di crisi 2012 -, ha infatti deciso di sopprimere tout court il proprio porto franco, con effetto dal 1 gennaio 2013. Una scelta non facile, ma necessaria. Dal 1888, anno di costituzione del suo Freihafen, Amburgo si è sempre identificata nel privilegio del porto. Esteso per lungo tempo nell’area della storica Speicherstadt, detto regime consentiva di immagazzinare e lavorare le merci in transito senza dazi né IVA. Ne traeva beneficio non soltanto il commercio delle merci pregiate che tradizionalmente qui approdavano dall’oriente – caffè, spezie, tappeti, olii, aromi -, ma anche l’industria. Il porto franco infatti ha molto contribuito allo sviluppo e alla crescita della città. Cantieristica navale, industrie meccaniche, impianti di raffinazione petrolifera e di lavorazione del rame, centrali a gas; tutte attività che ad Amburgo si sono radicate anche grazie ai vantaggi del punto franco.
I tempi e le regole del commercio internazionale sono però drasticamente cambiati e hanno reso obsoleti i privilegi del regime speciale. L’estensione del mercato unico europeo ai 28 paesi attuali, poi GATT e WTO, hanno ridotto dal 30 al 3 percento la quota delle merci in transito che erano ancora soggette a imposte doganali. La decisione di andare oltre al porto franco, per Amburgo era inevitabile. In questo quadro, il governo della città ha coinvolto gli operatori economici e gli stakeholder cittadini in un confronto strutturato sulla questione. Si trattava, d’altronde, di un’evoluzione naturale. Già da qualche anno, la superficie del Freihafen era stata progressivamente ridotta e la storica Speicherstadt trasformata in un’area residenziale, direzionale, sede di centri congressi, musei, imprese. I significativi investimenti immobiliari e di riqualificazione che hanno avuto luogo – e continuano – nell’area della nuova HafenCity, stanno disegnando, insieme alle grandi infrastrutture in costruzione, l’immagine che Amburgo proietterà sul futuro, con la nuova strategia del cd. “salto oltre l’Elba”. La città è inscindibile dal suo porto, e la pianificazione urbanistica colloca nel prossimo futuro la realizzazione di nuove autostrade, ferrovie, raccordi, destinati a sostenere il traffico crescente di mezzi pesanti – i container viaggiano anche su gomma – che si prevede raddoppierà in pochi anni.
Anche su questo piano il confronto con l’Italia non è lusinghiero. Sempre a Trieste, ad esempio, le infrastrutture languono mentre si discute perfino se sia utile una terza corsia per l’autostrada. Questione curiosa se posta per un’area portuale, ma non inusuale in un paese dove la logistica costa più che altrove per mancanza di strutture: reti, ferrovie, alta velocità, strade, tutto. I processi decisionali, d’altro canto, sono sempre complessi. Anche ad Amburgo, l’abolizione del Freihafen ha incontrato l’opposizione di alcune categorie. Il ruolo della politica, tuttavia, è decidere. Sia pure tenendo conto di interessi contrapposti. Così, il governo del Land ha stabilito di procedere, sia pur prevedendo risarcimenti e indennizzi – anche in termini di servizi – per gli operatori economici le cui attività fossero danneggiate dal passaggio al nuovo regime. Questa è la forza di un sistema in cui anche la Pubblica Amministrazione è efficiente e fa gioco di squadra.
Intristisce vedere come ciò avvenga meno in Italia, dove a parlare di interventi strutturali spesso si assiste a rigurgiti anti-industriali di un colorito “ambientalismo” di maniera. La crescita, sia pur sostenibile, è infatti possibile solo in presenza di strutture adeguate. Nei prossimi giorni, incontrerò alcuni rappresentanti del governo locale e degli operatori economici. Chissà non possa raccogliere spunti, riflessioni e idee utili per replicare anche da noi processi decisionali efficaci. Perché alla fine risorse e tempo sarebbero meglio impiegate per costruire, piuttosto che polemizzare.