Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo un estratto dell’editoriale del Prof. Mario Morcellini, direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale alla Sapienza Università di Roma, apparso sulla rivista Federalismi.
I risultati elettorali hanno fornito un riscontro oltre l’immaginabile alle previsioni “depositate”
nell’Editoriale del numero preelettorale di federalismi.it di poche settimane fa. Il terremoto politico è arrivato, l’incertezza politico-elettorale non solo ha portato alla tanto declamata
ingovernabilità, ma sembra invocare ineducatamente un radicale rinnovamento della classe
politica, in funzione dell’altrettanto radicale stravolgimento della geografia dei soggetti
sociali in grado di aspirare al centro della scena. Anzitutto i giovani, che in questa occasione
hanno espresso una decisa propensione non tanto antipolitica quanto antielitaria.
L’impegno a basso costo che la Rete sembrava promettere, e lo stile referendario della
mobilitazione che le piattaforme digitali sono in grado di alimentare, si è concretizzato nel
successo di chi ha scientemente disertato i salotti buoni della Tv, determinando una
paradossale centralità del leader del Movimento 5 Stelle. Tutti gli ospiti della televisione sono
stati costretti a fare i conti con la sua presenza/assenza, che ha in qualche modo strappato il
velo dell’opacità televisiva alimentando il dibattito su altre piattaforme – prima fra tutte,
Twitter. Ma non è neppure solo questo: all’indomani del voto, e forse per la prima volta in
modo così convinto, il dibattito in Rete non si è spento, e anzi si offre come luogo privilegiato
di verifica di una vecchia teoria: i media digitali possono essere uno strumento di verifica
permanente delle policies, e quanti hanno saputo usarli sapientemente in funzione elettorale si
trovano ora di fronte una Corte dei Conti diffusa che forse non si aspettavano neppure.
La dimensione del cambiamento accompagna caratteristicamente ogni scadenza elettorale, ma
in quest’occasione sembrava configurarsi come il plausibile esito di un eccesso di incertezza,
che appare finalmente più chiaro dopo il risultato. L’incertezza era nell’aria, si percepiva nelle
narrazioni della comunicazione e persino in quelle delle TV, ma soprattutto si respirava nel
network informale di voci e sentimenti che la rete racconta; ovviamente a condizione di
considerarla una mappatura delle terre sconosciute di una parte sempre più rilevante
dell’opinione pubblica soprattutto scolarizzata e giovanile. Ciononostante, i lettori ufficiali della crisi italiana, le gazzette e i politici in testa, sistematicamente tendevano a curvare l’attenzione verso il format di quel che già esisteva.
La difficoltà della pre-visione
E’ stata drasticamente messa in discussione la psicologia sociale ed individuale della
politica italiana, del tutto impreparata allo choc, e dunque pronta ad imbarazzanti reazioni
emotive che hanno quasi sfiorato una tentazione eversiva rispetto al voto: c’è stato chi ha
invocato immediatamente il ritorno alle urne; chi ha macchinosamente chiesto di rivotare solo
nella camera che ha dato risultati insoddisfacenti; chi ha chiesto di non proclamare i risultati
“fino all’ultimo respiro” e infine non pochi, più o meno implicitamente, si sono lamentati
dell’ immaturità politica degli italiani. Dopo i risultati, e in particolare dopo questi risultati, è
il momento di dichiarare che un così alto tasso di incertezza, in termini di governabilità e di
assestamento del sistema politico, può determinare una vera scintilla di cambiamento
positivo: può essere la volta buona per una riforma della politica che la democrazia italiana
non ha mai davvero conosciuto. Del resto l’autoriforma da parte dei partiti si è rivelata
aspirazione retorica e poco più; come ammoniva Frantz Fanon, “non saranno mai i bianchi
che fanno le leggi che servono per i neri”. Sulla base di questa considerazione, sono i cittadini
elettori i titolari del potere segnaletico alla politica verso un radicale cambiamento. Chi ci ha
creduto con convinzione, frequentando le reti sociali comunque costituite piuttosto che i
salotti televisivi, oggi ottiene un’adeguata restituzione dalle urne.
Cercando di riassumere la situazione alla vigilia del voto, il punto di partenza è quello
dell’incertezza non tra scelte già radicate ma in uno scenario più ampio: era impossibile
sottovalutare l’impatto della trasformazione dell’offerta politico-elettorale (come
specificamente previsto nel numero di Federalismi già citato), che ha avuto almeno due
risultati: quello di esser percepito come un aumento degli spazi vitali di una politica
considerata troppo prevedibile e ripiegata su sé stessa, ma anche la constatazione che
l’aumentata offerta di copertura comunicativa della campagna elettorale è stata intercettata da
una ampliata domanda di informazione, ancora una volta a chiara riprova dell’exploit di
incertezza che ha caratterizzato opinione pubblica e specifiche audicence dei media.
Osservando le stesse schede elettorali, e indipendentemente dai risultati che per definizione
fanno sempre soffrire di più i nuovi rispetto al “già visto” (ne sono una evidente riprova le
difficoltà che hanno avuto i soggetti politici più nuovi rispetto all’offerta tradizionale), il
numero di offerte politiche strutturalmente diverse dal passato supera non solo il bipolarismo
di maniera che ha immobilizzato l’ultimo ventennio, ma anche i tradizionali punti di
riferimento offerti dalle élites politiche agli elettori. Si potrebbe addirittura azzardare l’ipotesi
che persino i soggetti più riconoscibili rispetto al passato erano a ben vedere attraversati da
profondi moti di cambiamento interno. Per il centrosinistra basti pensare al fenomeno Renzi.
Ma nel centrodestra è successo di più: il lungo ed inconcluso dibattito sulle primarie,
l’inseguimento dei moderati “fuori” dal PDL ed infine l’enfasi sulla metrica delle alleanze.
Il cambiamento più radicale ha coinvolto, però, la drastica riarticolazione dell’offerta al centro
dello schieramento, che è risultata a ben vedere l’unica novità immediata della politica
italiana ad avere un suo mercato. Eppure, tutto ciò è stato banalmente classificato come flop
dal nostro ammirevole sistema informativo. Qui siamo difronte ad una prova lampante del
potere accecante dei sondaggi: dopo una lunga altalena negli exit poll, la lista di Monti ha
superato lo sbarramento sia al Senato che alla Camera; ma nei dibattiti televisivi e persino
negli echi dei giornali la memoria è stata attratta solo dall’oscillazione negativa delle
percentuali, anche in questo caso rivelatesi infondate. Per uno studioso, un movimento
preparato in poco più di un mese che raggiunge il 10% dei consensi è tutto meno che un
fallimento .
Era dunque questa incertezza di fondo, agitata anche da processi di esasperazione di quella
che opportunamente è stata chiamata fatica sociale, che ci aveva indotto ad ammonire
soprattutto la plausibilità di condurre in questa occasione attendibili prospezioni dell’opinione
pubblica, se non altro in ragione dell’imprevedibilità dei risultati e soprattutto dell’insicurezza dei punti di riferimento che possono motivare in profondità i comportamenti. Non si può dire che i sondaggisti abbiano adeguatamente percepito questa situazione (anche l’unica Agenzia che ha previsto un’importante variabile come la ripresa di Berlusconi ha poi mancato altri elementi di contesto). Una difficoltà equivalente ha caratterizzato però anche le previsioni di centri studi, studiosi di processi politici e forse anche di addetti ai media studies. In generale, però, come altre volte nel nostro paese, la funzione di accompagnamento critico ai cambiamenti che si profilavano sullo sfondo è complessivamente mancata ai grandi sistemi di informazione generalista come la televisione più della stampa.