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Perché non sono un “moderato”

«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca (Apocalisse 3)

 

Da circa un ventennio, dalla fine della Democrazia Cristiana, ad ogni tornata elettorale si ripropone il tormentone circa la rappresentanza dell’elettorato moderato. Categoria vischiosa della politica italiana, la si è spesso identificata con l’elettorato cattolico, come se esistesse un elettorato cattolico omogeneo e riducibile ad alcuni caratteri incontrovertibili. Credo che le cose stiano diversamente e lo stesso elettorato cattolico potrebbe effettivamente assumere un carattere tendenzialmente omogeneo solo se il ceto politico che avanza la pretesa di rappresentarlo mostrasse di saper coglierne gli elementi qualificanti.

Ho l’impressone che negli ultimi vent’anni tali elementi siano stati ricercati nella direzione sbagliata e, precisamente, in quella del “moderatismo”. Una sorta di “tiepidume” politico che spesso è stato rappresentato, non solo dal graffio della satira, come un atteggiamento politico privo di nervo, come un posizionarsi un po’ di qua e un po’ di là, come l’abitudine a giustificare il contingente e, infine, come la tendenza a compiacere le ragioni del più forte di turno; un tatticismo esasperato che ha condotto, dall’irrilevanza della diaspora degli anni Novanta, all’estinzione dei nostri giorni. È difficile negare che il moderatismo sia in effetti tutto questo, che è sempre esistito e che sempre esisterà. Ad ogni modo, mi chiedo che cosa abbia a che fare questa categoria con l’elettorato cattolico, con la sua storia, con le sue aspettative e, infine, con la testimonianza di coloro che hanno impreziosito la tradizione del cattolicesimo politico italiano.

Per questa ragione, mi è tornato alla mente uno dei maggiori interpeti del pensiero liberale del Novecento, il premio Nobel Friedrich August von Hayek, il quale nel 1960 pubblica il noto saggio Why I am not a Conservative, proprio per rispondere a coloro che identificavano il punto di vista liberale, free market oriented, con una prospettiva conservatrice che si opporrebbe invece alla visione progressista della storia.

Senza alcuna goffa pretesa di voler emulare alcun venerabile maestro, tanto meno Hayek, ho pensato che fosse doveroso specificare le ragioni per le quali, in quanto cattolico, “io non sono un moderato”. All’inizio avevo pensato di proporre una lettura della Lettera a Diogneto, una carta d’identità dei cattolici nella vita civile. Poi, fermo restando l’invito a leggere e a meditare comunque la suddetta lettera, ho ritenuto di grande interesse una riflessione su un brano dell’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II Reconciliatio et Paenitentia del 1985, riproposto dallo stesso Pontefice in una nota del paragrafo 36 dell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987.

Il contesto nel quale il brano è inserito nell’enciclica rinvia al tema delle “strutture di peccato” come cause del sottosviluppo. Le cause del “sottosviluppo” andrebbero ricercate in primo luogo nell’irresponsabilità civile di chi detiene posizioni dominanti all’interno della società civile. Il brano in questione ci dice che le strutture sociali, ovvero le istituzioni politiche ed economiche, non essendo soggetti di atti morali, non possono essere considerate in se stesse né buone né cattive, in quanto la responsabilità andrebbe sempre imputata in capo a coloro che operano in esse.

In definitiva, secondo la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa che dovrebbe animare anche l’azione dei cattolici nella sfera della politica, che fortunatamente non è l’unica e si relaziona con le altre sfere storico esistenziali nelle quali si concretizza la vita civile di ciascuna persona, le situazioni di ingiustizia e di malessere sociale dipendono, non necessariamente per via intenzionale, da personalissimi peccati di chi genera condizioni di iniquità, ma anche da chi più modestamente le favorisce, fino a comprendere coloro che se ne servono, sfruttandole, per il raggiungimento dei loro personalissimi obiettivi.

Tutto ciò basterebbe a qualificare il modo di essere dei cattolici in politica in maniera tutt’altro che “moderata”, eppure il brano in questione ci invita ad andare ben oltre e, tra i personalissimi peccati che contribuiscono all’edificazione di tali strutture, vengono comprese anche le azioni di chi, pur potendo fare qualcosa per evitare, eliminare ovvero limitare situazioni di iniquità sociale, non lo fa per pigrizia, magari per paura, una paura che può giungere fino all’omertà. Un peccato di omissione che è spesso giustificato a partire da una cultura dell’indifferenza e della complicità con il potere, un’indifferenza e una complicità che fiaccano le nostre energie e ci fanno desistere dalla quotidiana fatica della partecipazione, accampando scuse quali l’impossibilità di cambiare il mondo ovvero le immancabili ragioni di forza maggiore: “ragion di stato”, di “partito”, di “classe”, di “nazione”, di “razza” e via dicendo. Il brano si conclude ricordandoci che “Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone. Una situazione e così un’istituzione, una struttura, una società non è di per sé, soggetto di atti morali; perciò non può essere in se stessa buona o cattiva”.

Non saprei indicare con esattezza una categoria in grado di ridurre un simile ardore nei confronti dell’azione politica (ma anche economica e culturale). Di certo, quella del “moderatismo” mi sembra la più distante dall’ideale e, di conseguenza, quella che realisticamente non ha attratto il voto dei cattolici neppure in quest’ultima tornata elettorale, dopo una lunga catena di inesorabili fallimenti.

A questo punto, la speranza è che finalmente si sia compresa la lezione e che si abbandoni una volta per tutte la categoria del “moderatismo”, la si lasci a chi ama sguazzare nella palude e che alla rappresentazione dinamica e poliarchica della vita sociale – di una società libera –, preferisce una statica, monocromatica e monocorde; ovviamente quella del “Principe” di turno. Si consideri invece la categoria del “lievito”, di quell’azione riformatrice e creatrice, capace di lasciare un segno nella storia attraverso l’edificazione di istituzioni per il bene di tutti e di ciascuno.

In questi primi giorni di Pontificato di Papa Francesco, le sue parole pronunciate il 14 marzo, al temine dell’omelia durante la messa con i cardinali, esprimono in modo chiaro a diretto la categoria teologica che necessita di essere implementata politicamente, è la categoria della “Croce”: “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore”. La cifra politica dell’impegno dei cattolici in politica è evidentemente rintracciabile nel mistero-scandalo della Croce, è quella la misura con la quale Dio ci ha amati e ci ama e ci chiede di amarci l’un l’altro, procedendo, per vette ed abissi, lungo “la via istituzionale della carità”.

 

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