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Potenzialità e rischi di un Papa americano

Con l’inizio del conclave, e con le prime fumate nere, impazza sempre di più il «toto-papa». Alcuni giornali, addirittura, arrivano ad indicare in maniera più o meno esatta il numero di voti che il cardinale di Milano, Angelo Scola, il grande favorito, avrebbe raggiunto. Circa 50 secondo il Corriere della Sera, tra 35 e 40 secondo il quotidiano La Repubblica. Ma più si va avanti con le votazioni, maggiore è la possibilità che alla fine la scelta ricada su di un outsider.

Un po’ quello che avrebbe potuto succedere in occasione del conclave del 2005 in seguito all’impasse tra i sostenitori di Ratzinger e quelli del gesuita Bergoglio. Fu proprio lo stesso cardinale argentino, che non si sentiva pronto per assumere la guida della Chiesa, a chiedere ai suoi sostenitori di votare per colui che nel giro di poche ore sarebbe poi diventato Benedetto XVI. Succederà la stessa cosa anche in occasione di questo conclave? E qualora si verifichi una simile situazione, l’outsider potrebbe essere proprio uno di quei cardinali statunitensi di cui tanto si parla in questi giorni. Cardinali che, nelle scorse ore, hanno ricevuto una endorsement dal presidente Barack Obama.

I rischi (geopolitici) di un Papa americano

Ciò che dovrebbe rappresentare, almeno per i cattolici, un grande momento di fede (non si dimentichi, infatti, che sarebbe lo Spirito Santo ad indicare il successore di Benedetto XVI), è stato trasformato, in queste settimane, in un vero e proprio affare di geopolitica. E ciò anche per colpa degli stessi protagonisti. E’ stato, infatti, il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, a porre in maniera forte il problema, mettendo in discussione l’opportunità di un Papa americano: “Un pontefice statunitense, proveniente dalla superpotenza americana, incontrerebbe molti ostacoli nel presentare un messaggio spirituale al resto del mondo”. Lo stesso Wuerl ha poi aggiunto: “Gli Stati Uniti sono un grande e glorioso Paese, ma il Papa deve essere in condizione di lanciare un messaggio di sfida spirituale anche alla stessa America. Non sono perciò sicuro che sarebbe saggio avere un nuovo pontefice Usa”. Un pensiero, quest’ultimo, che il porporato americano ha esposto anche al prestigioso New York Times: “Mai mettere limiti alla divina provvidenza, ma un pontefice statunitense corre il rischio di essere identificato prima con l’America e poi essere visto come il successore di Pietro”. Parole chiare e ben precise, che sembrano essere un messaggio diretto agli altri porporati chiusi in conclave, ovvero: “non è ancora tempo per un Papa proveniente dagli Stati Uniti”.

Un pensiero, quello del cardinale Wuerl, che è stato ripreso anche da importanti commentatori americani. Thomas Reese, uno dei professori più in vista della Georgetown University, l’università dei gesuiti americani, ha sottolineato come “la gente penserebbe che l’elezione di un Papa statunitense sia stata combinata dalla Cia o da Wall Street”. Un rischio altamente plausibile, soprattutto in un Paese in cui buona parte della popolazione crede che gli americani non siano mai stati sulla luna o che l’attacco alle torri gemelle sia stato organizzato dal governo americano. Sulla stessa linea d’onda si trova Michelle Boorstein, reporter di punta del Washington Post, la quale afferma che “l’ostacolo principale è l’America stessa, vista a lungo come superpotenza globale, ritenuta succube di Wall Street o della Cia e moralmente corrotta da Hollywood”.

L’endorsement di Obama

E’ a questo punto, cioè in un contesto in cui l’elezione di un Papa statunitense viene percepita come un rischio, se non addirittura dannosa per la Chiesa, che il presidente degli Stati Uniti ha ritenuto opportuno intervenire. “Non c’è nulla di male ad avere un Papa americano” ha dichiarato Obama. E’ la prima volta nella storia che un presidente americano interviene in maniera così netta  nell’elezione di un pontefice a sostegno di un suo connazionale. Nulla a che vedere, ovviamente, con le interferenze dei principi cattolici nelle elezioni pontificie (un diritto, quest’ultimo, abolito nel 1903), ma molto significativo del clima che si sta vivendo. Nel corso di un’intervista per l’emittente Abc, Obama ha infatti precisato come “un Papa americano sarebbe efficace come uno polacco, italiano o guatemalteco”.

Presa di posizione “dovuta” o una reale speranza che un americano sia il successore di Benedetto XVI? Certo è, da un lato, che l’elezione di un pontefice americano, il primo nella storia della Chiesa, darebbe anche uno slancio all’immagine di un Paese che, nel mondo, non gode più di quel prestigio e di quel potere che aveva sino a qualche decennio fa. Barack Obama, la cui “stella” tende a brillare sempre meno anche all’interno del Paese, sarebbe uno tra i primi a trarre giovamento, ad esempio, dall’elezione del cardinale Dolan o dell’arcivescovo di Boston, il cappuccino O’Malley. Dall’altra lato, però, è indubbio che difficilmente verrebbe a crearsi, nel corso di questa presidenza, una sinergia tra Obama ed il nuovo pontefice americano. Per Obama, probabilmente, l’opzione più “sgradita” sarebbe quella dell’elezione dell’arcivescovo di New York Timothy Dolan. Se è vero che Dolan ha benedetto la Convention democratica (una scelta, pero, da inquadrare nell’ambito di una politica bipartisan, dato che Dolan ha partecipato anche a quella dei repubblicani), è altrettanto vero che l’arcivescovo di New York, ovvero colui che ha accusato di “fumare marijuana” coloro che ipotizzano la sua salita al soglio di Pietro, è forse il maggior rivale del presidente Obama tra i cattolici statunitensi. Difficilmente, infatti, potranno nascere sinergie tra un presidente che preme, ad esempio, a favore del matrimonio tra omosessuali e chi, come Dolan, inserito dalla rivista Time tra i 100 uomini più influenti al mondo, ha condotto una lunga battaglia contro la riforma sanitaria fortemente voluta dal presidente americano. Nel fare ciò, Dolan ha messo in campo uno dei principi fondamentali delle democrazie, ovvero la libertà religiosa: “qui c’è in gioco la liberta religiosa” ha dichiarato l’arcivescovo di New York. Un maggiore feeling potrebbe certo crearsi con il cappuccino O’Malley, arcivescovo di Boston, per il quale tifa il Boston Globe: “E’ il più umile di tutti” ha scritto il quotidiano della città natale di Obama. Ma certo Obama non si dimenticherà di come il cappuccino O’Malley abbia benedetto le marce anti-gay e guidato l’offensiva contro l’interruzione volontaria della gravidanza.

Un Papa americano è dunque possibile?

I cardinali statunitensi (ben 11 ne sono entrati in conclave, e tra loro anche il “discusso” Mahony) rappresentano sicuramente il gruppo più unito tra i 115 porporati presenti. Sicuramente non come gli italiani, all’interno dei quali si trovano i maggiori rivali del cardinale di Milano Angelo Scola. Non mancano, ovviamente, i detrattori, cioè coloro che non vedrebbero di buon occhio un Papa americano. Non tanto per ragioni di natura geopolitica, quanto per un temuto progetto di decentramento della Curia. Non è una novità, infatti, che gli americani considerino Vatileaks come un affare tutto italiano ma, soprattutto, come un affare di curia. Sin da subito, poi, il gruppo dei porporati americani ha cercato di rallentare i tempi del conclave proprio per evitare l’elezione di un candidato del “partito curiale”. Un Papa americano, infatti, darebbe senza dubbio un peso maggiore alle conferenze episcopali con il rischio, secondo alcuni, di “snaturare la figura del Papa e trattare la Chiesa come un’agenzia internazionale”. Certo è che, se la candidatura di Scola dovesse presto tramontare, e si decidesse di optare per un cardinali che non abbia esperienze curiali, allora Dolan, grande comunicatore, persona estremamente simpatica, esperto di social media, o il cappuccino O’Malley, uomo umile e schivo che potrebbe dare una nuova immagine alla Chiesa scossa dagli scandali, avrebbero delle buone chance. Non bisogna dimenticarsi, anche, di come l’America, in termini di popolazione cattolica, occupi il quarto posto dopo Brasile, Messico e Filippine. L’ipotesi di un Papa americano, volendo rimanere alle parole di John Allen, il più importante vaticanista statunitense, è senza dubbio “thinkable”.

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