La permanenza di Silvio Berlusconi in Ospedale è la più vivida rappresentazione dello stato di malattia della politica e del governo del paese. Paese che, come un malato, è solo nella più totale confusione, quella scatenata dall’ansia di non farcela. Ammalatosi per via, certo, di una condotta sregolata, paziente nelle mani del codazzo di tirocinanti che di medico hanno solo il camice, in fila come anatroccoli dietro il primario che abita sul Quirino. Paziente vittima dell’eccesso di attenzioni degli arrivisti della mutua e dagli eserciti di globuli bianchi che vogliono fare giustizia. Con il rischio estremo della discontinuità istituzional-cortisonica.
Un consiglio velato che ci sentiamo di dare a Berlusconi è quello di lasciare il San Raffaele. L’Ospedale non è bel posto, manco fosse il più sicuro rifugio dal peggior nemico. Buzzati, che fu poeta, con il suo Ospedale, che è un ospedale senza tempo perché il tempo del poeta è il tempo semplice della favola, mette in guardia gli uomini dall’indulgere nella malattia. Marachella e malattia non fanno paio. Lo stesso consiglio glielo darebbe cantando tulilem blem blu il Tognazzi che fingeva un fastidioso fischio al naso.
E per fornire ulteriore conferma di come sempre, prima o poi, il tempo della favola sa incrociare quello lineare della storia che ammanetta ognuno di noi a mezzo orologio da polso, aggiungiamo questo. Giusto un anno fa, giusto al San Raffaele un mese di ospedale si portò via lo zio. Zio appunto, figura personalissima e intimissima. Immagine semplice che, come il tempo della favola, è archetipica e capace di smuovere le viscere della sensibilità di ognuno. Un mese di ospedale, partendo dai piani alti sempre per un controllo, per quella routine condita delle attenzioni, delle coccole del personale medico e paramedico che ha il compito di rendere favola lo stato reale di maggiore disagio, fino ad arrivare ai piani inferiori, in basso, giù, fino al seminterrato, ai reparti della terapia intensiva, quelli fatti di corridoi bui, di respiratori, di silenzi assordanti.
Quelli in cui il big bang tra l’artificialità della tecnica e le preghiere fanno tanti morti quanto vivi. Tecnica, poi, che pensa di potere su tutto. Ma che produce l’elisir di lunga vita che solo ella stese beve lasciando solo poche gocce dell’ambita pozione ai tanti che ad essa anelano orizzontali su quei letti. E che un istante dopo l’exitus, come l’ultima agenda recita, diventano sacri.
Non abbiamo bisogno della tecnica, dei sotterfugi istituzionali. Né dei tirocinanti che cercano di ingraziarsi il primario. Qui ci vuole il veterinario che con la dolce violenza domi la paura della bestia e la curi. Ci vuole un uomo che allinei i suoi obiettivi a quelli del paese.