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Spagna e Portogallo si mettono al riparo dal contagio

Pubblichiamo un articolo del dossier “Euroscettici d’Europa: non solo Grillo” dell’Ispi

Conviene essere subito chiari: né in Spagna né in Portogallo si sta verificando una ondata di populismo o euroscetticismo, come invece accade in altri paesi membri dell’Unione Europea (Ue).

Anzi è vero il contrario, anche se è evidente che la sfiducia nei confronti dell’Ue è notevolmente cresciuta in entrambi i paesi (che hanno aderito nello stesso anno all’allora Comunità europea e che si trovano oggi in condizioni economiche differenti, pur essendo state entrambe colpite duramente dalla crisi). Però, a ben vedere, la sfiducia nei confronti dell’Ue e l’euroscetticismo non sono sinonimi. I cittadini spagnoli e quelli portoghesi non si fidano dell’Ue, così come non si fidano delle Istituzioni politiche nazionali, anzi si fidano meno proprio di queste ultime. Un risultato del tutto logico se si considera che né le Istituzioni di Bruxelles né i governi di Madrid e di Lisbona sono stati in grado di risolvere la crisi attraverso politiche di austerità ad oltranza; al contrario, l’hanno approfondita. I politici (sia quelli nazionali che quelli europei) generano ormai sfiducia tra coloro che hanno perso il proprio posto di lavoro o temono di perderlo, hanno visto allontanarsi l’età del pensionamento, hanno dovuto accettare una riduzione del loro salario o, più in generale, osservano un deterioramento del loro tenore di vita; ciò vale quindi per milioni di cittadini, specialmente lavoratori.

E tutto questo senza alcuna contropartita, perché sulla base dei dati attuali non è possibile intravedere una via d’uscita alla crisi, né tanto meno un modo per ridurre le differenze sociali. Ad esempio la Spagna (secondo I Informe sobre la desigualdad realizzato dalla Fundación Alternativas e che sarà presentato a breve) è il paese dell’Unione in cui si è allargata maggiormente la forbice tra i ricchi e i poveri e in cui la povertà si è più approfondita ed estesa dall’inizio della crisi.

Sebbene dunque i sondaggi indichino un deciso aumento della sfiducia nei confronti dell’Ue, tuttavia essi non avvalorano l’ipotesi che i cittadini intendano bloccare la costruzione europea o rinunciare ad alcune delle sue più importanti conquiste. In effetti, continua chiaramente a prevalere l’opinione che l’appartenenza all’Ue sia comunque positiva. In gran parte i cittadini si considerano sia europei che spagnoli (o portoghesi) e, cosa ancora più importante, un’ampia maggioranza della popolazione non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi dell’uscita dall’euro, anzi al contrario lo ritiene indispensabile. È ad esempio significativo che in Spagna si considerino co-responsabili delle difficoltà economiche i governi di Germania e di Madrid prima che le Istituzioni europee, a riprova dunque del fatto che il tentativo di accollare a Bruxelles tutte le colpe non ha avuto successo. In realtà le manifestazioni di piazza criticano apertamente la politica di austerità e, nel caso del Portogallo (che, non va dimenticato, è stato salvato) la Troika. Ma a nessuno viene in mente di condannare la Ue in quanto tale, né tanto meno quello che essa rappresenta. E ciò per motivi piuttosto chiari. Anzitutto, va ricordato che i cittadini sono ormai capaci di distinguere le responsabilità perché fortunatamente la loro conoscenza delle questioni comunitarie è aumentata. Inoltre in Spagna, così come in Portogallo, i benefici dell’appartenza all’Ue sono stati, sono e saranno concreti e ben visibili sia dal punto di vista storico-politico che da quello economico-sociale, grazie soprattutto agli effetti della politica di coesione.

Se dunque l’euroscetticismo classico non è cresciuto, quello che invece è decisamente aumentato è un europeismo critico che trova ormai ampio spazio nei grandi partiti di governo, ma anche nelle formazioni minori, nei sindacati e nelle altre forze sociali, nei mezzi di comunicazione e nell’accademia. In effetti, i socialisti – adesso all’opposizione – hanno assunto una posizione molto critica rispetto alla politica di austerità (che, senza alcun dubbio, essi stessi hanno contribuito ad elaborare e ad applicare mentre stavano al governo) a causa dei catastrofici risultati conseguiti, chiedendo invece a gran voce una politica capace di stimolare la crescita e l’occupazione. Ma ciò non li ha spinti nemmeno per un momento anche solo a ipotizzare l’abbandono del loro tradizionale europeismo, anzi li ha portati a chiedere un’unione politica di tipo federale dell’Ue e, in questo contesto, un’unione economica e sociale attraverso la quale preservare lo stato di benessere sin qui conseguito. Una posizione identica è stata adottata dai principali sindacati, da altre forze sociali, nonché da autorevoli commentatori e ricercatori (come indicato nel II Informe sobre el estado de la UE. El fracaso de la austeridad che è stato realizzato congiuntamente dalla Fundación Alternativas e dalla Friedrich-Ebert-Stiftung e che sarà presentato a breve).

Un passo più in là si trovano invece i partiti a sinistra dei socialisti, che in certa misura hanno visto rafforzata la loro opposizione all’euro, senza però spingersi fino a chiederne l’abbandono.

In ogni caso, ciò che va rilevato è che la politica di austerità sta modificando in maniera significativa il panorama politico esistente, anche se non attraverso un incremento del populismo. Né in Spagna né in Portogallo esistono partiti che hanno optato per questa deriva democratica o per l’antieuropeismo; cosa che non hanno fatto nemmeno i movimenti sociali di contestazione (per esempio, il 15-M in Spagna o movimenti simili in Portogallo). Ciò che invece viene ferocemente criticata è la gestione della crisi attraverso politiche di austerità da parte dei politici e delle Istituzioni; le critiche si concentrano quindi sui comportamenti dei primi e su come funzionano attualmente le seconde, e mirano a una profonda rigenerazione democratica.

Il cambiamento del panorama politico va dunque in un altro senso: prendendo il caso della Spagna, si va nella direzione di una perdita di consenso dei due principali partiti politici che congiuntamente di solito raccolgono circa l’80 per cento dei voti. Secondo alcuni sondaggi questa cifra appartiene ormai alla storia, in quanto oggi entrambi potrebbero arrivare a stento al 50 per cento, a tutto vantaggio di altre formazioni di sinistra o radicali, oltre che dell’astensionismo e delle schede bianche. Peraltro, altri sondaggi segnalano che i partiti di governo starebbero recuperando la loro egemonia nella distribuzione del voto, sebbene con un forte allontanamento da chi governa che però non va a totale beneficio di chi sta all’opposizione, quanto piuttosto delle terze opzioni sopra segnalate.

Né in Spagna né in Portogallo esistono per il momento un Beppe Grillo o un Ukip, per fortuna. Tuttavia ciò non significa che questo varrà anche per il futuro, anche se appare poco probabile. Né la storia né la vita democratica dei due paesi vanno in questa direzione.

In qualche modo quindi la lezione che va tratta è che l’Ue e i governi nazionali devono riflettere con attenzione sulle loro politiche di austerità. E che i partiti hanno il dovere di rinnovare la democrazia e combattere la corruzione. Altrimenti correranno il rischio di diventare inutili in un sistema in cui sono per definizione imprescindibili. Se questo paradosso dovesse verificarsi, allora sì che la porta del populismo verrebbe inevitabilmente spalancata.

Carlos Carnero è direttore della Fundación Alternativas. È stato eletto eurodeputato e nominato “Embajador de España en Misión Especial”



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