Intervista doppia (anzi, quasi tripla) ad Alessandro Piol e Maria Teresa Cometto
La capitale mondiale delle startup? Dimenticare la Silicon Valley. È tempo di Silicon Alley. Di questo sono convinti Alessandro Piol e Maria Teresa Cometto, autori di Tech and the city (Guerini e Associati, con prefazione di Carlo De Benedetti), guida alla città di New York che secondo loro prenderà (o ha già preso) il posto della west coast nel regno dell’imprenditoria innovativa.
Alessandro Piol è uno dei maggiori venture capitalist newyorchesi, socio di Vedanta Capital, e particolarmente attivo nella scena degli startupper americani: laureato alla Columbia, con un Mba ad Harvard, è inoltre figlio d’arte. Suo padre è il mitico Elserino Piol, mente strategica della Olivetti per quarant’anni, poi finanziatore del primo operatore Internet italiano, Tiscali e di altre startup di successo come Yoox.
Maria Teresa Cometto invece molti anni vive a New York e da qui racconta la scena economica e tecnologica soprattutto per il Corriere della Sera. All’Arancia hanno accettato di raccontare questo loro libro, che è insieme una Lonely Planet per chi volesse stabilire un business nella Grande Mela – ci sono i nomi di 50 personaggi chiave: i fondatori delle startup più significative e interessanti nei vari campi, dai social media all’e-commerce, dal software alla manifattura digitale; investitori “angeli” e venture capitalist; gestori di spazi di coworking, acceleratori e incubatori; rappresentanti di grandi aziende come Google; docenti delle università cittadine, manager dell’amministrazione comunale e consulenti – e una guida sentimentale a una città che rinasce sempre dalle sue ceneri; il libro è in uscita in questi giorni in Italia e ne abbiamo parlato in occasione della presentazione romana al museo Maxxi.
Cominciamo con Alessandro, newyorchese doc (liceo, poi Columbia University qui in città, poi non te ne sei mai andato). Cosa contraddistingue New York come nuova capitale delle startup rispetto per esempio alla Silicon Valley?
Piol. Dunque. La Silicon Valley resta avanti, in termini di business e di esperienza accumulata: è quattro o cinque volte più grande di New York come volume di capitali investiti; Hewlett-Packard, l’azienda «madre» di tutte le successive generazioni di startup californiane, è stata fondata nel 1939 e Stanford, l’università che ha fatto da volano alla Valle, è nata nel 1891. Dunque Silicon Valley ha dalla sua diverse generazioni di imprenditori tecnologici. New York come scena di investimenti tecnologici è molto più recente. Anche se i trend oggi la danno vincente: dal 2007 al 2011 i posti di lavoro nel settore tecnologico a New York sono aumentati del 28,7% da 41.100 a 52.900, mentre sono diminuiti nei settori tradizionalmente forti della città come la finanza (–5,9%), l’editoria (–15,8%), i servizi legali (–7%) e la manifattura (–29,5%). Nello stesso tempo il numero di investimenti di venture capital nelle startup newyorkesi è cresciuto del 32%, mentre è calato del 10% nella Silicon Valley e del 14% a Boston e dintorni.
Come scrive De Benedetti nell’introduzione al vostro libro, il ruolo dell’amministrazione pubblica è essenziale nel caso newyorchese.
Piol. Sì, certo, è il seed, come lo chiamano a New York. Il sindaco Michael Bloomberg in particolare ha giocato un ruolo fondamentale in questi anni. La sua azione è stata molto incisiva fin dall’inizio, dal 2001. Da una parte è un miliardario e quindi si è finanziato da solo, di conseguenza non ha dovuto subire limitazioni da soggetti terzi o gruppi di pressione. Dall’altra ha capito subito che dopo l’11 settembre la città doveva cambiare faccia, non essere più solo la capitale dell’economia finanziaria e della Borsa ma anche tornare all’economia reale.
Da una parte ci sono investimenti mirati da parte dell’Amministrazione, come il “regalo” di una parte di Roosevelt Island alla Cornell University. Il comune in pratica ha donato un vasto appezzamento all’università, e questa, con un investimento tutto privato di dimensioni clamorose, 2 miliardi di dollari, tutti autofinanziati, costruirà il più grande campus al mondo sulle scienze applicate. Dall’altra, un lavoro di squadra che si svolge tramite due team tutti basati sulla cooperazione tra pubblico e privato. La New York City Economic Development Corporation (NYCEDC) è l’azienda non-profit che risponde direttamente all’ufficio del sindaco ed è incaricata di promuovere lo sviluppo economico della città. C’è poi il Center for Economic Transformation (CET), un ponte fra l’amministrazione pubblica e gli imprenditori privati, in particolare quelli del settore high-tech. Sono loro che, per esempio, hanno organizzato una dozzina di incubatori, dal Bronx a Brooklyn, da cui in tre anni sono uscite oltre 40 società.
A proposito della Nycedc, nel libro c’è una storia interessante riguardo una telefonata.
Sì, la storia di Bostjan Spetic, il fondatore e amministratore delegato sloveno di Zemanta, un software che aiuta i blogger – e chiunque produca contenuti sul web – ad arricchire le proprie pagine con immagini e link intelligenti. Ventinove anni, Spetic ha iniziato la sua avventura a Londra ma poi ha ripiegato su New York. E si capisce perché. “Non avrei mai potuto fare in Europa quello che sono riuscito a compiere qui” ci ha detto Spetic. Ho parlato con persone che hanno creato le loro società prima del 2007: tutti sono impegnati nel far diventare New York una grande città per le startup. Non so come mi hanno scoperto, ma dopo un paio di mesi che ero qui la Nycedc mi ha contattato per capire che cosa stavo facendo. Mi hanno mandato una mail dicendo: “Ciao, possiamo programmare una riunione per conoscerci e vedere di che cosa hai bisogno?”.
Del resto lo stesso Bloomberg è uno startupper, o almeno ex startupper.
Cometto. La storia di Bloomberg è molto atipica e molto americana. Venne licenziato dal suo datore di lavoro “Sono stato sbattuto fuori dall’unico impiego a tempo pieno che avevo mai conosciuto e dalla vita stressante che amavo. Questo, dopo 15 anni di lavoro 12 ore al giorno, sei giorni la settimana. Fuori!” ha raccontato in una biografia. Bloomberg lavorava a Solomon Brothers, una istituzione finanziaria classica newyorchese, ed è stato mandato via (sia pure con una maxi liquidazione, 4 milioni di dollari del 1986, una cifra astronomica. Però non è andato a giocare a golf, e la metà di quei soldi li ha usati per mettere su la sua propria startup, che all’inizio si chiamava Innovative Market Solutions, e poi ha cambiato poi nome in Bloomberg LP e oggi è un impero dell’informazione finanziaria con 310 mila abbonati nel mondo.
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