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Ascanio Celestini e il teatro di narrazione

La rassegna “Alice allo specchio” si è aperta con due incontri dedicati alla “narrativa”. Ospite, Ascanio Celestini (Roma, 1972) che è la voce più nota del teatro di narrazione italiano. Celestini ha parlato di se stesso, del suo lavoro e della sua visione del mondo.

Ogni lavoro è un “prodotto speciale”: può essere dettato dall’improvvisazione e dunque dal genio creativo, o da un profondo studio quasi “antropologico”. Di questo tipo è il lavoro svolto sulla malattia mentale, un lavoro dedicato ai luoghi dell’esclusione e dell’annullamento dell’identità, come le carceri o i manicomi: 150 interviste realizzate con infermieri e infermiere, medici e pazienti per trovare una narrazione del disagio e dell’annullamento dell’io.

Del metodo antropologico sfrutta gli strumenti della ricerca: osservazione, raccolta dei dati, interpretazione dei fatti. Le storie sono vere e proprie narrazioni della vita. Dice Celestini che nel suo lavoro, che svolge quasi esclusivamente da solo, coglie gli aspetti della quotidianità, della routine, niente di scandaloso o eccentrico, cerca la concretezza delle esperienze individuali e collettive per trasformarle in drammaturgia.

L’opera si costruisce strada facendo, è un gioco riflessivo, un continuo ritornare sull’oggetto del lavoro. Lo scopo è perfezionare, lavorare sul processo, non dare un prodotto statico. L’effetto è l’incompiutezza. Ogni lavoro è diverso alla fine da come era stato pensato e da come il lavoro si era svolto. Ogni lavoro è indipendente nelle storie e nelle narrazioni: l’improvvisazione e la volontà di narrare sono gli elementi che tengono il dipinto coerente e comprensibile. Alla volontà di raccontare si mescola il grottesco. In manicomio, la descrizione della malattia mentale e delle condizioni disumane (sono come piante, dice la suora che lo accoglie al sanatorio) è mescolata a rappresentazioni comiche. Sia per i matti, sia per gli infermieri, sia per i poliziotti nelle carceri. Anche gli ambienti sono narrati con ironia e con il senso del grottesco. Si costruisce così un universo narrativo che spazia dalla seriosità dei temi trattati alla loro drammaticità, dal grottesco al commovente.

Il discorso narrativo si fonde, in questi lavori, con una dimensione sociale, antropologica, etica se vogliamo che sembra involontaria. Dice Celestini che lui cerca solo la “narrazione” e che nel fare ciò non c’è né un intento politico né un intento civico specifico. Lo scopo è narrare, sono i significati che associamo noi a queste narrazioni, si può dire, a dare l’etichetta di teatro impegnato, civico e politico.

Ma è indubbio che nei lavori presentati c’è una critica forte ad un “sistema” che è “oppressivo” e che produce effetti negativi sul vivere delle persone: dei matti, costretti in contenzione, così come degli infermieri, che sono tenuti ad esercitare una forma di violenza, istituzionalizzata.

L’artista Celestini è poliedrico. Ci parla di sé e della sua arte senza pausa: è un fiume in piena di aneddotti e di storielle che spaziano dai racconti della madre sulla guerra al viaggio a Berlino degli anni ‘90. Una narrazione profonda sulle problematiche dell’io e della relazione con l’altro: tra due bambini che si conoscono e si raccontano, tra infermieri e pazzi, tra istituzione e pedine, tra il bambino e la maestra, tra la nonna e il nipote e così via.

Con storie semplici e testi scorrevoli, Celestini parla di svariate forme di discriminazione e di ingiustizia, mette in ridicolo l’assurdità del nostro tempo e ci fa sorridere, ma anche riflettere e come dicono nella presentazione: si ride molto, ma amaramente.

 

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