Il National security council (Nsc) “benedice” la nascita di un nuovo think tank energetico, il Center on Global energy policy della Columbia University. A dirigerla è stato chiamato l’ex direttore per l’energia e il cambiamento climatico dello stesso Nsc, Jason Bordoff.
Il ruolo dei think tank
Il National security council non è propriamente un think tank nel senso italiano del termine (come “fondazione” non governativa), ma è un forum civile-militare di cui si serve il Presidente degli Stati Uniti per prendere decisioni di politica estera e di sicurezza. In pratica, è un tassello fondamentale della geografia del processo politico di Washington, in particolare da quando Henry Kissinger vi impresse un dinamismo eccezionale nel corso della crisi del Vietnam (1969-1975). Ciò che allora era però soltanto un elemento integrale ad ogni considerazione di sicurezza, l’energia, è diventato oggi così importante e onnipervadente da essere “scorporato” e trasformato in priorità distinta e sovraordinata.
La natura pragmatica della sicurezza Usa
Dai tempi di Kissinger è cambiato anche il quadro generale, potremmo dire la prospettiva di medio periodo in cui gli Usa si collocano e si leggono nella mappa energetica e dunque del potere globale. Nell’ultimo ventennio del XX secolo la teoria era il declino del petrolio, l’aumento della dipendenza dell’occidente e del potere contrattuale del Medio Oriente infiammato e instabile. Gli Stati Uniti si ponevano come capofila di una sicurezza energetica difensiva, la cui posta in palio era il controllo delle arterie petrolifere, e in primo luogo del Golfo persico. La Seconda guerra del Golfo del 2003 ha chiuso questo ciclo strategico “pessimista”, e ora un altro se ne apre, all’insegna di una rinnovata e insperata abbondanza.
Meno dipendenti, più liberi di intervenire
A delinearne le caratteristiche è lo stesso Tom Donilon, dal 2010 consigliere per la sicurezza nazionale, che ha salutato l’istituzione del Center on global energy come un evento tempestivo in una “momento trasformativo” per l’energia globale. Una cifra su tutte spiega il progressivo miglioramento della posizione Usa: nel 2005 il 60% del petrolio era importato, oggi è il 40% e secondo Donilon “siamo sulla buona strada” per raggiungere l’obiettivo di un dimezzamento entro il 2020. E dallo stesso 2005 le importazioni di gas naturale sono crollate del 60%. Il successo che Donilon celebra è una componente fondamentale delle teorie del “nuovo secolo americano”: una politica pragmatica che ha adottato l’approccio “all of the above”, promuovendo i nuovi business delle esplorazioni di shale gas e delle rinnovabili, senza abbandonare il nucleare.
Lezioni per l’Europa energetica
Meno legati a dogmi e rigidi schemi ideologici nelle politiche energetico-ambientali, gli Usa hanno guadagnato un vantaggio importante. In primo luogo, sono più liberi di agire su uno scacchiere fondamentale per l’Europa come l’Iran. Su questo dossier, possono far pesare l’ipotesi di un disimpegno: non hanno bisogno del petrolio iraniano e potranno esigere un prezzo più alto per farsi coinvolgere. In secondo luogo, la rete di think tank statunitensi che si irradia da Washington attraverso le campagne della “cintura del gas” in tutto il Paese non è “nemica” degli idrocarburi e dell’energia fossile, ma dipende, direttamente o indirettamente, dai finanziamenti dei grandi nomi dell’oil. Pesa qui il diverso grado di concentrazione dell’industria petrolifera, che in Usa ha una dimensione continentale, mentre in Europa resta legata a logiche di sovranità nazionale.