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Io, gesuita, e il gesuita Papa Francesco. Padre Spadaro si confessa

Quarantasei anni, gesuita, padre Antonio Spadaro è dal 1 ottobre 2011 il direttore de La Civiltà Cattolica, la più antica rivista italiana tra quelle che mai hanno interrotto le proprie pubblicazioni. Appassionato ed esperto di web e social network, padre Spadaro è curatore del blog Cyberteologia, dal qual poi è nato un libro di grande successo, “Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete”.

Ma cosa significa oggi essere un gesuita? Cosa significa avere un Papa gesuita? Ha fatto bene il Papa ad aprire un account twitter? Come è cambiata recentemente la Civiltà Cattolica? Formiche.net ne ha parlato direttamente con padre Antonio Spadaro.

Padre Spadaro, la Compagnia di Gesù esiste da più di 450 anni. Pur passando attraverso alcune fasi turbolenti, come la sua soppressione, è riuscita ad arrivare sino ai giorni nostri lasciando intatto il proprio messaggio. Cosa significa, quindi, oggi essere un gesuita?
Innanzitutto essere un gesuita significa occuparsi di Dio, avere uno sguardo rivolto sempre a lui. Significativo in tal senso mi è sembrato il gesto di Papa Francesco che, appena eletto, ha invitato tutti alla preghiera e lui stesso si è inchinato. Ma c’è anche una seconda caratteristica, ovvero quella di una grande passione per il mondo. Il gesuita, infatti, è convinto che Dio sia l’opera nel mondo ed il suo compito è quello di riconoscere i luoghi nei quali si fa trovare. Il gesuita, quindi, sostanzialmente apre i suoi occhi, che sono mossi dalla fede, sulla realtà, cercando non solo di capire cosa sta succedendo ma cercando anche, come affermato da Paolo VI, di “guardare in prospettiva”.

Per diventare un gesuita è richiesta, dopo un lungo periodo di studi, la professione dei tre voti caratteristici della vita religiosa (povertà, castità ed obbedienza). In realtà, però, al gesuita è richiesto anche un quarto voto, quello dell’obbedienza al Papa. Perché questo?
La nascita di questo voto è legata alle vicende di Sant’Ignazio, il nostro fondatore, il quale desiderava svolgere il proprio apostolato a Gerusalemme. Dal momento che ciò non gli fu possibile, allora decise di recarsi a Roma per mettersi al servizio del Papa. Una scelta, questa, dettata dal fatto che il Papa è colui che ha lo sguardo più universale sulla Chiesa ed è quindi meglio in grado di cogliere dove si trovano le sfide da affrontare. Noi gesuiti, quindi, ci mettiamo al servizio del Papa per il compimento delle missioni. Non si tratta di un’adorazione della figura del pontefice, come alcuni potrebbero pensare. Questo voto implica che il vero “Superiore” della Compagnia di Gesù è il Papa in persona.

I porporati riuniti nel recente conclave hanno eletto il primo Papa gesuita nella storia della Chiesa. Cosa significa per un gesuita avere un Papa che proviene dalla medesima famiglia?
Per noi è stato un grande stupore. Io stesso, all’inizio, ero alquanto incredulo. Per noi, infatti, è un qualcosa di strano dato che il gesuita si è sempre pensato al servizio del Papa. Per me era un qualcosa fuori dalla logica stessa delle cose dal momento che noi facciamo anche un voto di non accettare cariche ecclesiastiche quali, ad esempio, l’episcopato, che resta per noi un qualcosa di straordinario. L’aspetto che maggiormente ci sollecita come gesuiti è il fatto che Papa Francesco abbia avuto la nostra stessa formazione. E, d’altronde, se noi siamo chiamati al servizio del Papa per la sua visione universale, allora questo vuol dire che, nel momento in cui uno di noi è chiamato al pontificato, egli stesso è chiamato al servizio più universale.

Sembra che molto di “gesuitico” possa esserci nella riforma della curia romana che Papa Francesco ha in mente..
Mi sembra una cosa possibile, anzi credo sia naturale. Se una persona ha un certo tipo di formazione che riguarda non solo la preghiera ma anche il modo di vivere, di guardare alla realtà e di esercitare l’autorità, allora non può all’improvviso mettere tutto questo da parte. Prima di salire al soglio di Pietro, Papa Francesco è stato provinciale dei gesuiti argentini, arcivescovo di Buenos Aires, presidente della Conferenza episcopale argentina e. Ha quindi esercitato significativi poteri di governo senza però separarsi dalla propria spiritualità ignaziana, che è parte di esso..

Per tutta la durata del conclave e della sede vacante c’è stata una vera e propria attenzione spasmodica dei mezzi di informazione per ciò che avveniva Oltretevere, tanto che lei ha parlato di “conclave dei media”. E’ positivo tutto questo o intravede qualche possibile rischio?
Parlando di conclave dei media, mi riferivo soprattutto al fatto che oggi la comunicazione non è solo una semplice trasmissione di messaggi ma è una condivisione di contenuti all’interno di reti di relazioni. Durante i mesi passati, abbiamo assistito a una impressionante partecipazione sociale agli eventi della Chiesa. Tutto ciò, da un lato, ha un aspetto positivo che consiste nel desiderio di condividere con le proprie relazioni questo importante evento, sentendosi così parte di esso. Dall’altro lato, però, potrebbe esserci anche un aspetto negativo. Ovvero il rischio di una sorta di “fagocitazione” nel senso che venga a mancare lo spazio per una comprensione reale di quanto avviene. E’ un evento piuttosto nuovo che non mi sento né di condannare né di esaltare.

Nel suo libro “Cyberteologia”, c’è una frase che sembra essere particolarmente significativa. Lei scrive: “Oggi la grande sfida per la Chiesa non è imparare ad usare il web per evangelizzare, ma vivere e pensare bene, anche la fede, al tempo della rete”. Cosa deve fare, quindi, la Chiesa?
In passato i mezzi di comunicazione venivano intesi come dei semplici “mezzi”, come dimostra il nome stesso. Noi siamo quindi abituati all’idea della Chiesa che usa i mezzi di comunicazione sociale per la propria evangelizzazione. Oggi, invece, i mezzi di comunicazione generano un “ambiente comunicativo” in quanto diventano ambiente di riflessione e di condivisione delle esperienze. La Chiesa, quindi, non è più chiamata ad usare gli strumenti ma a vivere bene nel tempo in cui la rete non è un mondo parallelo e finto ma è diventato il tessuto connettivo delle nostre esperienze reali. Assistiamo quindi a un significativo cambiamento di prospettiva che richiede l’abitare questo ambiente da parte della Chiesa.

Nel suo recentissimo e-book “CyberGrace”, lei rifiuta l’opinione comune che non ci sia spazio per la spiritualità in un mondo tecnologizzato. Da dove nasce questo testo?
Il libro nasce da una constatazione di base. Ovvero dal fatto che oggi usiamo spesso le nuove tecnologie e, vivendo in un ambiente digitale, facciamo spesso riferimento ad applicazioni che aiutano nello svolgimento della vita quotidiana. L’abitudine ad usare tali tecnologie sta però plasmando il nostro modo di interagire con il mondo. Nel libro, quindi, mi pongo questa domanda: quale impatto avrà l’ambiente digitale sul nostro modo di vivere la spiritualità? Si tratta di una domanda in progress, che non ha ancora una risposta definitiva. Io mi limito a fare il punto della situazione e ad accennare qualche prima risposta.

La decisione di Benedetto XVI di aprire un proprio account su twitter è stata criticata da più parti. Numerose sono state le personalità intervenute in difesa del pontefice. Lei stesso, infatti, ha difeso la decisione di Benedetto XVI. Come si può dunque spiegare tale presenza del pontefice sui social networks?
Innanzitutto mi lasci dire che il Papa non ha certo bisogno di essere difeso da me nelle sue scelte. Io parto semplicemente dalla constatazione che il Papa è presente sui social network ben prima e al di là dell’apertura ufficiale dell’account. Ogni persona o evento rilevante è oggetto di conversazione sociale. La comunicazione sociale includeva già, nei propri discorsi, la figura del Papa. La Chiesa stessa è ampiamente presente sui social media in omaggio alla grande attenzione per ciò che avviene nel mondo della comunicazione sociale. Numerosi sono i sacerdoti, i vescovi e persino i cardinali che hanno un proprio account. Da sempre, pero, c’è un certo atteggiamento negativo verso la Chiesa che usa i mezzi di comunicazione, come se ciò svilisse il valore del messaggio. Un vero e proprio ossimoro, dato che il messaggio deve essere comunicato.

Ma a cosa mira il Papa con la sua presenza su twitter?
Il Papa, come ho detto, è arrivato su twitter dopo una lunga apertura della Chiesa ai social media. Tale presenza è legata alla necessità di una comunicazione che oggi sia breve, intensa. E’ la comunicazione di cui l’uomo oggi ha bisogno. Ma la decisione di aprire un account twitter ha anche un valore simbolico. La Chiesa, infatti, è chiamata a stare nelle strade sulle quale viaggiano gli uomini. E gli uomini, oggi, stanno nella rete.

La critica principale mossa alla decisione del pontefice è che il vangelo rischierebbe di essere ridotto a semplici slogan di 140 caratteri. Condivide anche lei questa preoccupazione?
Nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali Benedetto XVI ha scritto che nella essenzialità di brevi messaggi, spesso non più lunghi di un versetto biblico, si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità. E’ in tal senso, quindi, che deve essere intesa le decisione del pontefice. E mi lasci dire che la predicazione di Papa Francesco è perfetta per i tweet.

Lei dal 1 ottobre 2011 è il direttore de La Civiltà Cattolica, la storica rivista dei gesuiti. A distanza di circa un anno e mezzo, qual è il suo bilancio di questa nuova esperienza?
Si tratta di un’esperienza che a oggi posso definire sicuramente molto positiva. Ho iniziato a collaborare con la rivista quando avevo 26 anni, ovvero nel 1993. Esserne, però, oggi il direttore significa vedere le cose da una prospettiva totalmente differente. La rivista, infatti, ha 163 anni di vita ed è la rivista italiana più antica tra quelle che non hanno mai interrotto le pubblicazioni. Non posso fare bilanci dopo appena un anno e mezzo, ma posso dire che si tratta di una avventura affascinante, nella quel mi trovo a pensare l’innovazione alla luce di una grande e solida tradizione.

La rivista è andata recentemente incontro ad alcuni significativi cambiamenti. Come mai tale esigenza? Forse hanno influito le parole di Papa Francesco che, nell’udienza concessa ai giornalisti, ha invitato ad “aprirsi al mondo e a non rimanere chiusi nel proprio recinto”…
Le parole di Papa Francesco ci sono sicuramente di conforto. Anzi stanno a dimostrare che siamo sulla strada giusta. Detto questo, pero, devo precisare che la decisione di rinnovare, graficamente e strutturalmente, la rivista risale a prima dell’elezione di Papa Bergoglio. Il nostro obiettivo, quindi, è stare lì dove il vangelo incontra le questioni urgenti e brucianti dell’uomo di oggi. E’ il mondo intorno a noi che è cambiato e per questo la rivista si rinnova. La Civiltà Cattolica si rinnova per essere se stessa. E’, soprattutto, non mancherà di rinnovarsi continuamente per essere fedele alla sua natura ed al suo compito.

Al di là dei cambiamenti grafici, molto più semplici da cogliere, vi sono stati cambiamenti strutturali all’interno della rivista?
Era dal 1970 che non venivano apportati cambiamenti grafici alla rivista. Proprio per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno fare alcuni cambiamenti, preservando però, e cercando di valorizzarlo, il “Front Bodoni”, passando dal “Bodoni Poster” al “Bodoni Normal”. Il “Bodoni”, infatti, è da sempre il filo conduttore grafico della rivista. Quanto alla struttura della rivista, invece, in un mondo in cui la cronaca è affidata ai quotidiani e, sempre più, ai blog ed ai social network, abbiamo deciso di eliminare le “cronache”. Grande spazio, invece, verrà dato alle riflessioni, valutazioni critiche, ragionamenti ed alla attualità grazie ai “focus”, un insieme di articoli di carattere politico, economico, internazionale e di società. Senza dimenticarci, ovviamente, della Chiesa che avrà un posto fisso al centro della rivista.

Ci sono però anche importanti novità in tema di digitale e presenza sui social network..
Si, la Civiltà Cattolica diventa da ora disponibile su tutti i tablet con applicazioni per iPad, iPhone, Android, Kindle Fire e Windows 8. La presenza sul digitale è complementare a quella su carta per cui tutti i nostri abbonati potranno leggere la rivista sia in forma tradizionale sia in forma digitale. Non si tratta, perciò, di una fase legata solamente al digitale, indipendente dalla versione cartacea, ma di una fase legata all’integrazione tra la versione cartacea e quella digitale. Ma mi lasci aggiungere una cosa.

Prego..
Grazie ad una collaborazione con Google, è stato avviato un progetto per cui saranno resi disponibili su web tutti i fascicoli pubblicati dal 1850 al 2008. Google, infatti, aveva digitalizzato i volumi nel contesto del suo progetto “Google libri”, attraverso alcuni accordi con biblioteche in Europa e negli Stati Uniti. Si tratta di un patrimonio straordinario che verrà messo a disposizione di tutti.

Alla luce di questi cambiamenti quale è, oggi, la missione della rivista?
La rivista è, come avrà letto nel recente editoriale, una “forma alta di giornalismo culturale”. Nel 1851 i gesuiti che allora curavano la rivista scrissero che “ti entra in casa per recarti novelle, per proporti dubbi, per darti schiarimenti su questa o quella questione dibattuta”. Noi oggi non intendiamo solamente commentare eventi culturali o riflessioni già formulate. Per quanto ci è possibile vogliamo intuire ciò che avverrà, anticipare le tendenze e prevederne l’impatto. Ed il nostro obiettivo è fare tutto ciò non solamente all’interno del mondo cattolico ma con chiunque intenda avere fonti di formazione affidabili.

Un’ultima domanda. Lei è direttore de La Civiltà Cattolica, curatore del blog Cybertelogia, autore di numerosi libri, docente presso la Pontificia Università Gregoriana e consultore in alcuni Pontifici consigli. Non teme che tutto questo possa allontanarla dall’essenza dell’essere gesuita?
Penso l’esatto contrario. Ciò che faccio – e questo vale per tutti i gesuiti – non l’ho scelto, ma l’ho ricevuto come compito. Chi mi ha affidato questi compiti d’altra parte ha saputo cogliere i miei interessi. Provo gratitudine, quindi. Ma soprattutto sono ben consapevole che la Chiesa chiama noi gesuiti a essere persone che sono a proprio agio nelle frontiere e nelle trincee. Paolo VI nel 1974 ci disse: “Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i Gesuiti”. Benedetto XVI ha ripetuto le stesse parole. Ecco perché mi sento radicalmente e profondamente gesuita.


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