E’ la 17.ma tra le proposte formulate dal gruppo di lavoro per le riforme istituzionali costituito dal capo dello Stato, ed è forse quella più innovativa: regolamentare le lobbies, introducendo un registro pubblico e trasparente, prevedendo regole per la loro partecipazione al processo decisionale e relazioni che esplicitino le ragioni delle scelte del decisore.
La prima notizia che emerge da questa proposta non è tanto la proposta in sé. La vera notizia è che, per la prima volta, in un atto formale di natura para-istituzionale non ci sono giri di parole: il paragrafo 17 si intitola “Lobbies”. Questa parola ha rappresentato per anni un vero e proprio tabù, anche giuridico: in tutti i disegni di legge presentati in Parlamento, compreso nell’unico elaborato dalla Commissione governativa all’epoca del secondo governo Prodi da me coordinata, si parla di portatori di interessi, di gruppi di pressione, di mediatori. In Italia la parola “lobby” è utilizzata solo dalla stampa e solo in termini negativi. Per la prima volta i “saggi” affermano, invece, che l’azione delle lobbies è legittima e che il problema della nostra democrazia non è l’azione di pressione da loro svolta ma la mancanza di regole chiare e trasparenti.
Fatta questa premessa (molto più dirompente di quanto si possa immaginare), i saggi suggeriscono al Legislatore di ispirarsi ai modelli offerti dal Parlamento europeo e dagli Stati Uniti d’America. Scrivono “Parlamento europeo” e non “Unione Europea” non a caso: fino a giugno 2011, infatti, a livello comunitario era presente un’unica regolamentazione del fenomeno lobbistico, introdotta nel 1996 dal solo Parlamento. Queste norme prevedevano, per chiunque avesse voluto professionalmente influenzare il deputato, l’obbligo di iscriversi in un registro pubblico così da ottenere un tesserino di accesso al Parlamento dove poter incontrare il decisore. Nel giugno 2011, dopo un lungo dibattito, queste norme sono state di fatto sostituite da un “interinstitutional agreement” in materia di lobbies e trasparenza siglato dal Parlamento e dalla Commissione europea: con le nuove disposizioni, ora vigenti, l’obbligo per le lobbies di iscriversi in un elenco pubblico si è trasformato in facoltà, con l’effetto che la stragrande maggioranza dei lobbisti europei non si registra più. Il modello statunitense, invece, è quello più noto: è dal 1946 che esiste una legge specifica per le lobby, sebbene la Corte Suprema l’abbia dichiarata incostituzionale nel 1953, costringendo così il legislatore a modificarla. Entrambi questi modelli – non a caso richiamati dai “saggi” – rientrano nella modalità di regolamentazione del fenomeno lobbistico che si definisce “regolamentazione-partecipazione” (riprendo quanto già sostenuto in P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione, Giuffrè 2011).
I “saggi” sembrano guardare anche a quanto è stato già fatto dal governo Monti nel 2012: un anno fa, infatti, il Ministro delle Politiche Agricole ha costituito ha introdotto l’obbligo per chiunque voglia fare lobby sul Ministero di iscriversi in un pubblico registro. Chiunque, oggi, con un clic sul sito web del Ministero, può già conoscere i nomi dei lobbisti iscritti, gli unici abilitati ad essere coinvolti nel processo decisionale secondo una procedura che impone la massima trasparenza e la pubblicità sul sito di ogni passaggio. La proposta dei “saggi” va, quindi, nella direzione di estendere a Governo e Parlamento il “modello Mipaaf”.
Ma la necessità di introdurre regole sul lobbying è dovuta anche all’introduzione, con la legge anti-corruzione dello scorso anno, del nuovo reato di “traffico illecito di influenza”: come ha evidenziato la Corte di Cassazione del novembre 2012, sarà impossibile per i magistrati applicare correttamente questa fattispecie se prima non si definisce la dimensione lecita dell’azione di influenza e di mediazione.
Ben venga, quindi, la proposta dei saggi. Ma basta? Non proprio.
Non è possibile, infatti, regolamentare le lobbies senza regolamentare i decisori pubblici. Ed è quello che manca nella proposta dei saggi: non c’è traccia di norme che obblighino i decisori a rendere pubblici -e consultabili on line- i loro interessi, economici e non solo, come avviene in Gran Bretagna o negli Stati Uniti d’America o a Bruxelles. Non c’è nessuna proposta volta a rendere trasparente il finanziamento della politica da parte delle lobbies: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui se verso meno di 50.000 euro al giorno ad un partito, non devo renderlo pubblico. In Gran Bretagna c’è l’obbligo di rendere pubblico ogni contributo superiore a 50 sterline!
Tutto ciò manca eppure le norme sulle lobbies sono efficaci solo se si introducono obblighi di trasparenza per chi decide. Non si può regolamentare solo una faccia della stessa medaglia.
Qualche anno fa un illustre professore di diritto costituzionale, Tommaso Edoardo Frosini, così efficacemente scriveva: in Italia il fenomeno lobbistico <è stato praticamente ignorato non perché da noi le lobby non esistono – tutt’altro …- ma per la preoccupazione che la disciplina dei gruppi di pressione equivalga alla loro legittimazione, dunque una curiosa ritrosia a riconoscere che il Re è nudo>. Ecco, a quanto pare i saggi si sono accordi di questo fatto e hanno deciso che è forse arrivato il tempo di confezionare un bel vestito al Re. Un vestito consono al suo rango di Re democratico e costituzionale. La speranza è davvero l’ultima a morire.
Pier Luigi Petrillo è professore di Teoria e tecniche del lobbying alla Luiss Guido Carli. Coordina l’Unità per la Trasparenza del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.