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Quando Maccanico diceva: “Quo vadis senza riforma elettorale?”

Pubblichiamo l’intervento di Antonio Maccanico pubblicato sul numero di luglio 2007 di Formiche

Si avverte sempre più chiaramente che la questione della riforma elettorale è divenuta la cartina di tornasole della irrisolta transizione del nostro sistema politico.
Ma quale è la transizione in corso ormai da molti anni? Transizione da quale sistema politico e verso quale altro sistema?
La risposta a questo quesito è fondamentale. La vera rottura del sistema della prima repubblica è stato il referendum popolare che ha portato alla legge elettorale maggioritaria ad un turno adottata nel ’93. Il popolo direttamente interpellato, ha sepolto la Repubblica proporzionalistica e le forze politiche che l’avevano dominata.Tangentopoli e la vittoria elettorale della Lega nelle elezioni del ’92 ne hanno completato la demolizione.

E’ cominciata una lunga transizione dalla Repubblica proporzionalistica a quella maggioritaria.
E’ questa la vera alternativa di sistema nella quale siamo immersi da anni.
La legge elettorale maggioritaria ad un turno ha avuto tre effetti importanti e positivi che il paese ha apprezzato: una maggiore stabilità politica (legislature 1996-2001, e 2001-2006 finite alla scadenza naturale); la scelta popolare diretta della coalizione di governo; l’alternanza degli schieramenti al governo del paese, cosa che non era mai avvenuta in passato. Era tutt’altro che perfetta, ma questi pregi li ha avuti.

La legge elettorale prevalentemente maggioritaria per le elezioni della Camera e del Senato ha tuttavia anche generato nei partiti politici una resistenza molto forte alla diffusione generalizzata del principio maggioritario.
Intanto aver adottato il sistema maggioritario a turno unico di per sé è stata un’ancora di salvezza per i piccoli partiti, che sarebbero scomparsi col doppio turno di collegio; perciò questo sistema non è stato preso in considerazione dalle forze politiche.
Inoltre è stata difesa con tenacia la quota proporzionale del 25 per cento; la legge sul finanziamento dei partiti ha aiutato fortemente la sopravvivenza delle piccole formazioni politiche; i regolamenti parlamentari hanno consentito la formazione di gruppi con pochi componenti; ma soprattutto nelle elezioni comunali, provinciali e regionali sono rimaste in vigore leggi elettorali proporzionali: i partiti per assicurare governabilità al livello locale hanno preferito cambiare la forma di governo, adottando un modello semipresidenziale spurio, pur di non modificare in senso maggioritario la legge elettorale.

Alla tendenza popolare espressa in favore di un sistema maggioritario le forze politiche hanno contrapposto, cioè, una tenace resistenza proporzionalistica come unica garanzia di sopravvivenza.
Il problema della governabilità, in altri termini, è stato affrontato in modo divergente tra i due livelli di governo: quello centrale (risolto con la riforma elettorale maggioritaria imposta dal referendum) quello regionale e locale, con una revisione in senso semipresidenziale della forma di governo.

Questo conflitto sotterraneo tra le aspirazioni popolari ad un consolidato sistema bipolare garantito da una legge elettorale maggioritaria e la persistente concezione difensiva proporzionalistica dei partiti ha creato un lungo stallo nel processo di riforma, ha bloccato la transizione, ed è sboccato alla fine in un successo dei proporzionalisti con la mostruosa legge elettorale proporzionalistica approvata alla fine della scorsa legislatura.
La condizione che si è creata di instabilità, di incertezza e di confusione determinata da questa legge elettorale nella presente legislatura, con la intensificata frammentazione partitica ha spinto il nostro sistema politico in un vero cul de sac, in un vicolo cieco che sembra senza uscita. O meglio, ha posto alle forze politiche un dilemma finalmente ineludibile: o si riprende con decisione il cammino della democrazia maggioritaria con collegi uninominali ad un turno o a doppio turno; o ci si arrende a forme di ritorno proporzionalistico sia pure meno rozzo e scombinato di quello vigente, con tutti i rischi di passi indietro e di restaurazioni, che alimentano delusioni, discredito e consolidamento dell’antipolitica.

Il Presidente della Repubblica insiste giustamente sulla urgenza di una saggia riforma elettorale (in caso di crisi politica insolubile come si fa a ritornare alle urne con una legge elettorale mostruosa come quella vigente?). Tuttavia solo una maturazione complessiva delle forze politiche nel senso di un processo di aggregazione e di semplificazione degli schieramenti può aprire la strada ad una riforma elettorale che faccia uscire il sistema politico dalla convulsione passata e dalla paralisi e ci dia una democrazia governante con un minimo di efficienza.
E il partito democratico che sta per nascere è il primo segno di questa maturazione; ma su questo tema deve mostrare chiarezza di idee, fermezza di propositi e capacità politica.

E’ sicuramente positivo che sia la sinistra cosiddetta alternativa, sia la casa delle libertà sentano l’urgenza di procedere ad aggregazioni che superino l’attuale frammentazione. E’ la conferma della necessità storica della nascita del partito democratico.
Ma fin quando questo processo non sarà concretamente avviato e questo salto nella cultura politica nazionale non sarà realizzato il partito democratico non deve rinunciare alla richiesta di un ritorno al maggioritario, e i referendari non devono togliere dal tavolo la cosiddetta pistola del referendum. Una ristrutturazione profonda delle forze politiche, degli attori politici nazionali potrà consentire una legge elettorale che sciolga finalmente il dilemma e realizzare una condizione necessaria per una efficiente democrazia governante.


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