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La targa dell’auto di Montalbano: AK696FW

Ieri sera stavo guardando il nuovo episodio del Commissario Montalbano, la serie ispirata ai romanzi di Andrea Camilleri che continua a riscuotere tantissimo successo. Ma, non è di questo che voglio parlare. Oggetto della mia attenzione è, in questa sede, un dettaglio che ieri sera, dopo tanti episodi, si è fatto avanti, tutto impettito, al cospetto della mia memoria. Come sa chi scrive, il dettaglio ha proprietà straordinarie nell’aprire nuovi mondi e nuovi orizzonti narrativi, indipendentemente dalle forme con cui, poi, il racconto viene depositato. Il dettaglio si mangia la testa di chi lo coglie, l’arrovella. Il dettaglio fa fare un salto nel tempo e nello spazio. Il dettaglio, va immaginato come quel punto verso cui vanno tutte le linee dei quadri futuristi, quelli fortemente geometrici. Dal concentrarti su di lui, sul dettaglio, ecco che te ne parti come su di un tappeto volante chissà dove tra ricordi, riflessioni, immagini, rumori e odori. Insomma i sensi, tutti, si mettono in moto e con loro partono le emozioni: gioia, nostalgia, e quello che nella lingua di Camilleri è l’alammiccu. Il dettaglio è un elisir che ti fa vivere, mentre vivi.
Tutto questo capitò a me ieri sera. In un preciso momento mentre ero che guardavo il dipanarsi dell’indagine che, un istante dopo, diventò un semplice sfondo nero. Tutto accadde quando, l’inquadratura mostrò, della macchina del commissario, il numero di targa. AK696FW.
Dato che, adolescente, ero solito memorizzare numeri di telefono e numeri di targa, quanto più possibile, ieri sera come la biglia dentro al flipper, quel numero andò a illuminare uno tra quelli che avevo memorizzato, quello della macchina di Saro, anzi di suo padre. Che era una Tipo grigio scuro. Sì, quella. AK696FW. Ecco.
Il commissario Montalbano viaggia sulla macchina che fu di Saro, anzi di suo padre, dove anch’io ebbi l’occasione più volte di viaggiare. Tante furono le occasioni. Quel viaggio a Modica per quella partita di calcio con la squadra dei pasticcieri dove il più piccolo dei ventidue ebbi la fortuna di confezionare agli avversari un bel bignè. Quella sera sempre verso la città che fu Contea con quel groppo in gola in cui coagulavano mille pensieri d’amor cortese che alla prova dei fatti si consumavano in platoniche occhiate inconcludenti. Quella volta invece verso la marina in quelle giornate, tra ponti e feste, che dalla primavera portavano all’estate con il cofano carico di salsicce, bibite e carbonella che finiva puntualmente bagnata dagli immancabili gavettoni.
Il tempo della favola e della finzione a un tratto aveva aperto, come le piace fare spesso, una breccia nel dominio del tempo finendo con l’incrociare l’indicativo del dopo cena che è, spesso come per la vita, il tempo del futuro anteriore.

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