In un’intervista apparsa su “la Repubblica” del 5 luglio 2012 (Perché l’Italia deve farcela), Eugenio Scalfari chiese al presidente Napolitano cosa pensasse del fatto che secondo alcuni negli ultimi mesi si era registrata una forzatura dei poteri del Quirinale, quasi come se, nell’ultima fase del settennato, vi fosse stata una sorta di accentuazione presidenzialista a detrimento dei partiti e del parlamento. La risposta fu molto netta. In primo luogo, la considerazione che quando il potere politico è forte il ruolo del capo dello Stato resta ben circoscritto, quando la politica è debole esso naturalmente si espande. Poi la constatazione che nei sei anni al Quirinale aveva potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia forse il capo di Stato europeo dotato di maggiori prerogative.
Senza considerare il presidente francese che però agisce in una forma di presidenzialismo, la nostra – secondo Napolitano – è una Repubblica parlamentare la cui Costituzione ha riservato al presidente un peso effettivo.
Il presidente con queste parole mostrava di avere una chiara percezione del raggio di azione nel quale la sua opera si era dispiegata: l’esercizio dei numerosi e penetranti poteri attribuitigli dalla Costituzione in un contesto politico di debolezza del sistema partitico e, di conseguenza, del raccordo parlamento-governo. Non vi è dubbio che, nell’ambito di queste coordinate, egli abbia agito con determinazione e abbia interpretato in maniera molto incisiva il suo ruolo.
(…) Innanzi tutto, sul piano formale, non si sono registrati strappi. Il governo ha sempre controfirmato gli atti del presidente, assumendosene la responsabilità ai sensi dell’art. 89 cost. Che ciò in determinate occasioni possa essere avvenuto malvolentieri o in maniera riluttante in fin dei conti non rileva sul piano giuridico e può essere considerato l’indice di un diverso assestamento dell’equilibrio tra i due poteri nella determinazione del contenuto degli atti presidenziali.
Per altro verso, allorché il presidente ha bloccato iniziative del governo, questo si è adattato senza eccessive resistenze. Anche nell’episodio di maggior tensione, il rifiuto del decreto Englaro, il governo non ha insistito e non ha percorso la strada che in base alla Costituzione gli avrebbe consentito di veder eventualmente riaffermato in via generale il suo potere quanto all’adozione dei decreti legge, e cioè quella di sollevare un conflitto di attribuzione.
Anche riguardo alle “incursioni” presidenziali nel corso di procedimenti legislativi o in riferimento ai loro esiti non si sono registrate prese di posizioni ufficiali in senso contrario dei presidenti delle camere o di altri organi parlamentari, che portassero le questioni sul piano della definizione giuridica del rapporto tra capo dello Stato e camere.
Non pare quindi che si possano lamentare rotture o deroghe della Costituzione le cui disposizioni hanno trovato sempre applicazione. Il fatto è che la Costituzione non solo ha dotato il capo dello Stato di molti poteri, ma non ne ha procedimentalizzato in modo stringente l’esercizio. Essa ci dice solo che un certo atto deve essere emanato dal presidente e controfirmato da un membro del governo. La partecipazione dei due organi alla determinazione del contenuto dell’atto non è stata in passato e non è in assoluto il frutto della volontà del costituente, ma il risultato della sempre diversa combinazione dei rapporti di forza che si instaurano di volta in volta tra presidente e governo nell’attività di reciproca collaborazione al momento dell’esercizio delle funzioni presidenziali. In sostanza, le previsioni costituzionali sono, come si usa dire, a maglie larghe, sono elastiche e offrono la possibilità di essere declinate in diversi modi.
(…) Se guardiamo all’esperienza di Napolitano riteniamo che egli non si sia fatto portatore di un indirizzo politico alternativo a quello delle forze di maggioranza, diverse nelle legislature del settennato, ma che lo abbia sicuramente condizionato, mediante atti e comportamenti ispirati a quelle “prestazioni di unità” che sono l’essenza costituzionale della sua funzione.
Il contesto nel quale il presidente Napolitano ha agito è stato quello di una profonda divisione tra le forze politiche, di governi fondati su maggioranze instabili e deboli nell’attuazione del loro indirizzo politico, di un mutamento epocale del modo di essere dei partiti che hanno perso la loro presa sulla società civile. Il tutto aggravato a partire dal 2008 da una sempre crescente crisi economica internazionale che ha pesantemente condizionato le vicende interne italiane. Anche per chi legittimamente si è posto dei dubbi sui confini dell’azione del presidente è doveroso chiedersi se l’anomalia di questi anni sia stato l’attivismo presidenziale o il decotto e rissoso sistema dei partiti ai quali il regime parlamentare affida in prima battuta il suo regolare e ordinato funzionamento. D’altra parte, a fronte degli interventi presidenziali che avrebbero anche potuto apparire un’invasione del campo della politica, i partiti non hanno mai reagito in maniera compatta rivendicando in blocco il loro primato su quel terreno. Si sono limitati a lasciar cadere nel vuoto, come è stato, ad esempio, per la riforma della legge elettorale, i ripetuti richiami del capo dello Stato oppure qualcuno di essi ha sollevato polemiche su specifiche questioni. Una critica più continua e serrata è venuta solo da partiti alle estreme dello schieramento politico.
Estratto dal saggio “La repubblica del Presidente – Il settennato di Giorgio Napolitano” (Il Mulino, 2013) di Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno, che sarà presentato mercoledì 24 aprile alle 11 a Roma (Sala Zuccari, Palazzo Giustiniani) con Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini, Andrea Romano, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante (modera Monica Maggioni)