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Perché non convince il Patto dei produttori lanciato da Confindustria

“Signori partecipanti, abbiamo sbagliato”. Che cosa sarebbe accaduto se a Torino il presidente della Confindustria avesse cominciato così il suo discorso? Non per un culto dell’autocritica che rimanda indietro all’inquisizione spagnola passando per lo stalinismo, ma perché la riflessione sugli errori commessi è sempre la premessa per non farne ancora e per ricominciare davvero. Giorgio Squinzi se l’è presa con la politica e con i politici, tutti indiscriminatamente, proclamando che la mancanza di governo ci ha fatto già perdere un punto di prodotto lordo. Avrebbe dovuto aggiungere che fu un errore accettare a Parma nell’ormai lontano 2001 che Silvio Berlusconi proclamasse: il vostro programma è il mio programma e, nonostante non abbia mai ridotto le imposte come promesso e come desiderato dagli industriali, abbia sempre ottenuto il loro sostegno. O che fu sbagliato intascare il taglio del cuneo fiscale deciso da Romano Prodi nel 2007, per tamponare bilanci dissestati e preparare la ritirata nelle concessioni governative.

L’assemblea torinese ha espresso protesta, legittima, non c’è dubbio. Ma poca proposta. C’è un elenco dell’avere, manca quello del dare. Il lutto per le imprese che muoiono è legittimo, ma a parte il minuto di silenzio, che cosa ha fatto la Confindustria per aiutarle? Non si può essere schumpeteriani e francescani, ma nemmeno schumpeteriani con i soldi dei contribuenti.

Ormai non c’è dubbio che uno dei problemi della debolezza industriale italiana si chiama bassa produttività del capitale, non solo e non tanto del lavoro. Lo dimostrano gli studi di Daniel Gross. E questa scarsa produttività è legata alle condizioni esterne alle imprese che senza dubbio fanno da freno (burocrazia, servizi, corruzione, ecc. ecc.), ma anche alla cattiva organizzazione manageriale, al familismo eccessivo, al nanismo ossessivo (perché usato come mezzo per mantenere il controllo sul proprietà), come risulta dalle indagini della Banca d’Italia, fin da quelle di Fabrizio Barca vent’anni fa. E Riccardo Gallo non smette di ricordare che le imprese dovevano investire di più per far fronte alle nuove sfide. I dati su ricerca e sviluppo mostrano che l’Italia è indietro non tanto per quel che spende lo stato, quanto per quel che non spendono i privati.

Dunque, signori partecipanti siete stati troppo spesso a rimorchio, anche voi una cinghia di trasmissione. Siete arrivati tardi all’appuntamento con le due rivoluzioni (quella digitale e quella globale), sperando che i governi potessero spostare nel tempo la resa dei conti con aiuti, incentivi, protezionismi vari.

Ciò non riguarda i singoli industriali, molti dei quali hanno compiuto il salto di qualità necessario a restare a galla o anche a vincere quella lotta senza quartiere chiamata competizione. Lo dimostrano i dati eccellenti sull’export fuori dall’area euro, nonostante l’irragionevole sopravvalutazione della moneta unica e tutti gli ostacoli sistemici che ben conosciamo. Piuttosto è la loro lobby (o sindacato del capitale) a non aver guidato quel salto culturale collettivo che avrebbe trasformato un gruppo di pressione in classe dirigente. Non è una novità. I più anziani ricordano la delusione di Guido Carli nel 1978, quando propose uno Statuto dell’Impresa per far da pendant allo Statuto dei Lavoratori. La premessa di tutto era la trasparenza, la fine dei rapporti incestuosi con le banche e la politica. Non se ne fece mai nulla, come ricorda l’ex presidente (ed ex governatore della Banca d’Italia) nelle sue memorie.

Insomma, la politica ha le sue colpe e ormai lo si sente dire fino alla nausea. Ma anche i corpi intermedi, i poteri forti, le aggregazioni di interessi della società civile (a cominciare dai sindacati). Nel momento in cui gli industriali sono stati chiamati a partecipare al salvataggio del paese (perché di questo si è trattato nel novembre del 2011, non dobbiamo dimenticarlo) hanno cominciato il loro malmostoso borbottio. Mario Monti ha commesso molti errori e forse non era l’uomo giusto per il nuovo, sperato, risorgimento. Ma come ignorare che nel novembre 2011 l’Italia era una sorta di grande Lehman Brothers e c’era liquidità solo per pochi giorni? Certo è che anche la Confindustria, come i sindacati e come i partiti, superata la nottata, ha tirato i remi in barca. Squinzi ha ragione, ci vuole un governo. Uno che governi e non un mero ponte verso elezioni anticipate che, allo stato attuale, non cambierebbero granché (a meno che non facciano prima un passo indietro sia Bersani sia Berlusconi). Ma la Confindustria e le confederazioni sindacali, cosa sono pronte a concedere per portare l’Italia fuori dalla palude? Quali sono i contenuti nel nuovo patto dei produttori? Chi è disposto a cedere che cosa prima di chiedere aiuti, sostegni, prebende, o quant’altro ai politici sempre odiati e sempre coccolati? Senza una risposta chiara sul dare non solo sull’avere, adunate come quelle di Torino servono ad alzare polvere quando in aria ce n’è persino troppa.


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