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Pyongyang e Seoul, pericolosi equilibri di forza

Pubblichiamo un articolo del dossier “Corea del Nord: rischio reale o bluff” dell’Ispi 

La crisi attuale, iniziata nel dicembre scorso e che ha alzato il livello nei giorni scorsi, va letta partendo dallo stato di salute del regime nordcoreano. Si tratta di un paese dipendente per oltre il 70% dall’economia cinese; con “evidenti difficoltà nel soddisfare il fabbisogno alimentare” della propria popolazione affetta da “alti tassi di malnutrizione”; nonché ancora alle prese con la questione della successione a Kim Jong-il – solo parzialmente risolta con la nomina del figlio Kim Jong-un. La situazione economico-politica sudcoreana è collegata alla politica interna e resa funzionale dal regime alla negoziazione con gli Stati Uniti e all’obiettivo di politica estera numero uno: l’avanzamento del programma missilistico-nucleare.

Dalla fine della Guerra Fredda in avanti, a ogni cambio di presidenza in Corea del Sud (dove il mandato presidenziale dura 5 anni) corrisponde un innalzamento delle tensioni a opera della Corea del Nord. Nel 1993, quando s’insedia Kim Young-sam, Pyongyang esce dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Nel 1998, giunto alla presidenza Kim Dae-jung, il regime nordcoreano lancia un missile (per Pyongyang si tratta di un satellite) che sorvola il Giappone per poi schiantarsi nell’Oceano Pacifico. Sempre nello stesso anno Seoul sequestra un mini sottomarino nordcoreano all’interno delle proprie acque territoriali per scoprirvi all’interno l’intero equipaggio deceduto. Nel 2003, eletto presidente Roh Moo-hyun, Pyongyang annuncia di essere in grado di produrre 6 testate nucleari. Nel 2009, a pochi mesi dall’insediamento di Lee Myung-bak e dalla proclamazione della “M docrine” (linea più intransigente che subordina gli aiuti umanitari a una cooperazione fattiva) Kim Kong-il autorizza un altro lancio missilistico e un nuovo test nucleare. Anche le recenti provocazioni sono iniziate nel dicembre 2012, in concomitanza con l’elezione di Park Geun-hye.

Negli ultimi vent’anni, mentre i capi di stato sudcoreani hanno perseguito ognuno una propria via ritenuta idonea per stabilire rapporti inter-coreani collaborativi, Pyongyang ha seguito la medesima strategia basata sul rischio calcolato, innalzando in momenti chiave la provocazione sempre con un fine preciso: ottenere aiuti internazionali, avanzare pretese verso Pechino, stabilire un dialogo diretto e bilaterale con gli Stati Uniti.

Diversamente rispetto alle crisi passate, Seoul ha deciso di agire seguendo una linea impostata alla totale intransigenza, riprendendo la “M Doctrine” del presidente Lee, ma spingendola verso una direzione ancor più risoluta, spiegabile con tre motivazioni.

In primo luogo, la matrice politica di appartenenza, la biografia e la personalità della presidente Park Geun-hye, leader del partito conservatore e figlia del militare Park Chung-hee, anch’esso presidente (1961-1979) e considerato l’architetto dello sviluppo industriale sudcoreano: se in campagna elettorale affermava di voler imbastire una “politica della fiducia” tra le due Coree da raggiungere in maniera graduale, a seguito di minacce credibili poste da Pyongyang la presidente Park ha dichiarato che la deterrenza militare è tanto importante quanto la risposta militare in caso di attacco. In secondo luogo, le rassicurazioni di un sostegno pieno da parte di Washington, partner strategico che intende rimanere il player regionale di riferimento. Infine, i rapporti tesi tra Cina e Corea del Nord, con Pechino sempre meno convinta che un appoggio incondizionato a Pyongyang serva ai propri interessi nazionali.

La crisi attuale presumibilmente (e auspicabilmente) finirà con la ripresa dei negoziati del Gruppo dei 6 oppure con l’apertura di un negoziato bilaterale – seppur indiretto – Pyongynag-Washington. La leadership nordcoreana vincerà la partita nel breve periodo guadagnando, oltre alla garanzia di aiuti umanitari, ulteriore tempo per il perseguimento del programma missilistico-nucleare. Tuttavia, lo farà in maniera meno netta rispetto alle precedenti occasioni di confronto avvenute negli ultimi due decenni.

Emanuele Schibotto è dottorando di ricerca in geopolitica economica presso l’Università Marconi e coordinatore editoriale del Centro Studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali Equilibri.net.

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