Bene o male che vada la banca gestita, i manager italiani possono dormire sogni tranquilli. Prendendo in considerazione la retribuzione dei Ceo dei primi sette gruppi bancari italiani, un report dell’Ufficio Studi Uilca, (Uil Credito, Esattorie e Assicurazioni) sottolinea come “in Italia non vi è una cultura aziendale inerente l’erogazione della parte variabile della retribuzione”. Tantomeno sembrano esistere relazioni tra l’andamento del gruppo e il dividendo distribuito agli azionisti, come insegna Intesa Sanpaolo nel 2011 ad esempio.
La spinta di Bankitalia
Si deve dunque “appoggiare lo sforzo della Banca Centrale nel promuovere “best practices” che leghino performance aziendali e retribuzione, laddove gli indicatori ricomprendano criteri qualitativi trasparenti e siano riconducibili a logiche di lungo periodo”.
La direttiva europea su retribuzione fissa e variabile
La direttiva europea 2010/76/CE e le successive disposizioni della Banca d’Italia in materia di politiche di remunerazione e incentivazione degli amministratori delle banche, oltre a focalizzarsi sulla retribuzione del top management, cercano di instaurare un legame tra performance sostenibile dell’azienda e compensi dei manager. La normativa in essere, spiega l’Ufficio Studi Uilca, prevede che la retribuzione debba essere divisa in due parti: fissa e variabile, ove la seconda dovrà essere corrisposta al raggiungimento di obbiettivi pluriennali e liquidata in parte con azioni e in parte cash. L’efficacia della normativa entrata entrata in vigore nel 2011 sarà verificabile solo fra alcuni anni, quando sarà possibile attestare se le performance sostenibili aziendali previste sono state raggiunte dal management e dunque se vi sarà l’effettiva liquidazione della parte variabile della retribuzione.
La distribuzione dell’utile a prescindere dall’andamento della banca
“Nel campione di istituti di credito analizzato – si legge – si nota come la percentuale di utile netto distribuito negli ultimi cinque anni oscilli in maniera casuale, quasi ad avvalorare la tesi che un utile in qualche modo debba essere distribuito. Sovente però l’azionista di maggioranza, spesso una Fondazione, è interessato solo al dividendo per le erogazioni e non alla tutela del patrimonio, per cui diventano secondarie operazioni di tutela e incremento di quest’ultimo. Basta prendere in considerazione il caso di Intesa Sanpaolo. Se nel 2007 ci sono stati utili netti per 7,25 miliardi di euro, con la distribuzione di 4,86 miliardi in dividendi, nel 2011, con una perdita di 8,19 miliardi, gli azionisti hanno incassato un totale di 822 milioni di euro.
Diminuisce la parte variabile, ma svetta quella fissa…
Considerate le retribuzioni dei Ceo, dal report emerge un andamento opposto nel corso degli anni (tra il 2007 e il 2011) in merito a parte fissa e variabile per i sette maggiori gruppi bancari italiani (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Banco Popolare, Banca popolare dell’Emilia, Carige, Unione Banche Italiane). Se la parte variabile è scesa dal 48% del 2007 al 4% del 2011, così come raccomandato anche da Bruxelles, quella fissa è quasi raddoppiata, passando dal 52% del 2007 al 96% del 2011.
La necessità di intervenire sulle remunerazioni
Quel modo di fare banca ha originato elevate remunerazioni per manager, che oggi obbligano le autorità di controllo a intervenire. In futuro la crescita dei ricavi e della redditività del sistema bancario si avrà grazie alla fedeltà del cliente e al suo grado di soddisfazione, che non si acquisiscono solo con il prezzo più basso del prodotto. Il continuo taglio dei costi per creare redditività, soprattutto di quello del lavoro, non può quindi essere ripetuto all’infinito e dunque non può essere la strada maestra per recuperare competitività. La sostenibilità dei risultati aziendali nel medio periodo, richiamata dalla Banca d’Italia per normare gli stipendi dei manager, non potrà essere avulsa da tale scenario.