Fabrizio Barca è ministro della Coesione territoriale nel governo Monti ma è anche il jolly della sinistra italiana. Non si è candidato alle elezioni ma non fa velo di voler lavorare per costruire una formazione moderna non in antitesi con la tradizione italiana. Fuori dal politichese, il suo progetto non è solo di ‘mescolare’ Pd e Sel ma di dare una identità più forte e più chiara al partito democratico (coinvolgendo anche Vendola, ovviamente). Giornalisticamente è stato considerato quale anti-Renzi. Non è proprio così. Il pensiero politico di Barca può essere compreso meglio attraverso le sue parole. Quelle pubblicate recentemente da Formiche e che qui riproponiamo.
Nel recente dibattito politico-culturale è riemerso il tema del superamento della distinzione tra destra e sinistra. Lei ritiene che queste siano categorie ancora significative e utili?
Decisamente sì, tanto sul piano culturale storico quanto su quello delle politiche concrete. La distinzione esprime soprattutto una diversa enfasi sociale: mentre a destra si sottolinea molto più l’impegno personale rispetto alle circostanze, a sinistra si guarda più alle seconde, ovvero alle condizioni di partenza delle persone, alla libertà “sostanziale” e alla costruzione di contesti in cui la possibilità di esprimere i propri diritti non sia solo formale. Dalla differente enfasi deriva una conseguenza rilevante per la risposta alla domanda: dove deve intervenire di più lo Stato, e dove meno? Qui, negare la differenza tra sinistra e destra ha conseguenze serie, perché dà un messaggio errato, ovvero che si possano evitare scelte tra diverse curve di “preferenza” (come suggerirebbe un manuale di politica pubblica). Così si nega l’effetto della policy, la selezione delle politiche migliori che derivano dal confronto tra preferenze. Ciò detto, è vero che c’è un altro asse di distinzione rilevantissimo in politica: quello tra liberali ed estrattivi. Un liberale ritiene che la concorrenza, in tutti i campi, sia fondamentale, a costo di perdere i vantaggi della staticità, mentre un estrattivo ritiene che i vantaggi della stabilità siano più forti rispetto all’incertezza creata dal cambiamento continuo. Incrociata con l’altra distinzione (destra/sinistra), questa, più metodologica, finisce con l’arricchire la qualità del dialogo. In particolare a me, come persona di sinistra, interessa che la sinistra liberale e la destra liberale dialoghino, pur con enfasi diverse, sulla base della comune preferenza per il rinnovamento.
Lei ha recentemente affermato la Sua disponibilità ad impegnarsi in politica. Non si sente un po’ controcorrente rispetto a un’idea che tende ad essere rappresentata come maggioritaria, ovvero che i partiti siano una zavorra novecentesca, di cui sarebbe meglio disfarsi al più presto?
Spero che questa visione – che pure ha trovato spazio negli ultimi anni – divenga presto minoritaria. Una cosa è certa: gli anni Sessanta, con la loro accentuazione soggettivistica hanno messo in crisi il grande partito di massa, che nasce dalla classe operaia ma che è stato imitato dai grandi partiti cristiano- sociali: un aggregato con una larghissima base di iscritti, dove le posizioni più elevate sono raggiunte attraverso una dura selezione interna fatta di militanza. Oggi siamo di fronte ad una cittadinanza multi-identitaria, in cui la distinzione non è più tra “capitale” e “lavoro”, ma tra molti “capitali” e molti “lavori”. Rispetto a questo dato comune, solo in Italia però – per il modo traumatico in cui la crisi si è manifestata – la difficoltà di quella specifica forma-partito si è tramutata nell’idea della fine dei partiti tout court. Negli altri grandi Paesi, le formazioni politiche si sono date regole per superare la crisi dei partiti, non per aggirarli, in quanto non è venuta meno la ragione originaria dei partiti nati dalle rivoluzioni borghesi: mettere insieme persone che vengono da diversi strati sociali, cercare di articolarne e coniugarne interessi e valori in una sintesi che si approssimi il più possibile a un’idea di bene comune. Che i partiti occasionalmente finiscano preda di interessi particolari è un’inevitabile deviazione che fa parte della normale dialettica sociale: chi si iscrive avanza almeno in parte alcuni interessi particolari, ma lo fa nella ricerca di un bene comune e comunque nella convinzione che insieme sia più facile comprendere il modo di realizzare i propri interessi. Si tratta ora dunque di aggiornare la forma-partito valorizzando, o quantomeno non contrastando, gli elementi di novità. Oggi, i “lavori” della società multi-identitaria possono offrire una ricchezza e un capitale umano impressionante alla politica. Penso ai Verdi in Germania e alla parte migliore della forza aggregativa del Movimento 5 Stelle in Italia, che possono offrire ai giovani non solo opportunità di carriera – che è la parte meno innovativa e interessante – ma di partecipazione forte alla cosa pubblica. E tuttavia la risposta a questa nuova domanda di partecipazione non è la moltiplicazione delle liste, ma il rafforzamento dei partiti. Invece, l’assenza di partiti ben funzionanti priva il Paese di un canale di condivisione delle conoscenze tra un territorio e l’altro – e questa è già una piccola traccia di quello che potrebbe essere la nuova forma-partito oltre la crisi della sua forma di massa: un catalizzatore di soluzioni, capace di raccogliere la sfida di una società più istruita e colta, più ricca di esperienze rispetto a quella organizzata nei partiti di massa.
Passando ai nodi dell’economia pubblica, vorrei un Suo giudizio sulla rinnovata polemica di parte liberista contro l’intervento statale, polemica che ha preso di mira anche Cassa depositi e prestiti.
Ritengo che lo Stato sia legittimato a intervenire in economia. È semmai la natura vetusta della macchina statale – assieme a una debolezza di visione culturale e all’assenza di riforme efficaci – a porre i maggiori problemi. Lo Stato va riorganizzato a partire dalle sue funzioni ordinarie, quali la lotta all’evasione: qui è stato fatto un ottimo lavoro con l’Agenzia delle entrate. A fianco a quella ordinaria, c’è una funzione economica assai delicata che in estrema sintesi definirei: far sì che il capitale finisca nelle mani giuste. Qui l’Italia, terra di piccole imprese che faticano a diventare grandi, ha un deficit storico: gli ultimi vent’anni non sono bastati a sciogliere il nodo del modello da adottare per il mercato dei capitali, borsacentrico o bancocentrico. Un ripristino delle partecipazioni statali nonè possibile o auspicabile per i rischi collusivi che rappresenta. Bisogna invece pensare a soluzioni, come appunto la Cassa, in cui sia ben chiara la distinzione tra chi decide la destinazione dei fondi e la politica.
Ci sono percorsi innovativi di finanza pubblica, in grado da una parte di evitare i rischi di secessione di fatto paventati dall’accordo Lega-Berlusconi sulla destinazione del gettito fiscale, e dall’altro di creare consenso politico?
L’unica soluzione a mio avviso è quella della revisione di spesa, nell’accezione originaria inglese del termine review: uno strumento non per tagliare, ma per rivedere l’impianto della finanza pubblica, distinguendo l’esigenza dei tagli dall’esigenza di aumentare l’efficacia della spesa. Il problema primario del nostro Paese è il secondo. Per me il Quaderno bianco sulla scuola del 2007 è esemplare del percorso da intraprendere: abbiamo individuato il nodo di uno squilibrio e abbiamo aperto una discussione che, se portata a termine, avrebbe consentito la riallocazione ottimale dei plessi scolastici. Certo si tratta di processi lunghi e chi li avvia non incassa simpatia e dividendi elettorali. Argomentazioni elettoralistiche spesso impugnano anche il tema dello squilibrio territoriale tra nord e sud, tra regioni ricche e regioni povere. Anche qui la strada della revisione di spesa è la soluzione, come abbiamo fatto durante il 2012. Essa rimette enfasi sulla qualità dei servizi, che era la parte migliore dell’intuizione del decentramento: uno scambio tra il concetto unitario di Paese, in cui le risorse fluiscono nei territori per creare libertà sostanziale per tutti, e l’efficacia, l’efficienza e il livello di servizio che i beneficiari locali devono offrire a fronte dei capitali che vengono messi a loro disposizione.