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Aldo Moro e quella verità ancora da accertare

Eletto giovanissimo all’Assemblea costituente nel ‘46, Aldo Moro portava con sé l’esperienza di costruzione e direzione nazionale di un’associazione cattolica e quella del brillante giurista precocemente in cattedra. Nella Costituente il suo ruolo fu subito rilevante e apprezzato da autorevoli esponenti di altre forze: mostrava di intendere le ragioni diverse e aveva la capacità di tradurle in formule costituzionali appropriate, che l’Assemblea sovente fece proprie (in particolare sui diritti della persona nella prima parte della Carta, ma anche su questioni generali, come la formulazione del fondamento antifascista della Costituzione – che altri avrebbero voluto soltanto a-fascista).

Concorrere a una straordinaria progettazione sociale con la formulazione sapiente e creativa di principi fondamentali forgiò dunque caratteristiche politiche, che Moro conservò sempre, divenendo anche grazie a esse personaggio tanto significativo e addirittura “necessario” nella Dc, allorché negli anni successivi si sono dovuti affrontare momenti di profonda crisi del sistema politico uscito dagli anni costituenti. Uno di questi momenti si ebbe quando, esaurita la strategia del centrismo, nei primi anni ‘60 si doveva aprire una strada nuova, cercando la collaborazione di governo con i socialisti pur nella persistente contrarietà della Chiesa cattolica.

E l’altro momento in cui sono apparse decisive le sue qualità (direi la sua “fantasia politica”, insieme al grande senso di concretezza a fronte delle contraddizioni reali) si collocò a metà degli anni ‘70, quando l’avanzata del consenso popolare al Pci obbligò la Dc a misurarsi anche con la proposta di governo di quella forza. In entrambi i momenti Moro riuscì a essere guida del suo partito e di tutto il Paese perché sorretto dall’idea alta di politica come progetto di società, che per tradursi in nuovi principi e istituzioni deve produrre anzitutto un mutamento nelle vedute e nella cultura dei partiti.

L’apertura del discorso sulla Terza fase del sistema politico italiano nel ‘76 nacque in uno dei momenti di più acuta percezione dei pericoli del sistema italiano nella sua specifica collocazione internazionale. Moro, che aveva a lungo riflettuto su quella che lui stesso chiamava “democrazia difficile” (per l’assenza di condizioni internazionali e interne che consentissero l’alternanza), vide la Terza fase come passaggio stretto, di successive sperimentazioni attraverso cui gli ostacoli a un funzionamento “normale” della democrazia come alternanza potessero essere rimossi, uno alla volta. E tra questi prioritario era il cambiamento di scenario rispetto alla Guerra fredda est/ovest.

Per questo a me pare che egli non sia stato solo un “politico eminente”, ma uno statista, nel senso proprio di chi sente la responsabilità verso l’intera comunità nazionale e non si arrende alle condizioni di contesto in cui opera. Una tesi diversa, più critica nei suoi confronti, circolò al tempo dei “furori” per i referendum elettorali come grimaldello del sistema dei partiti della Prima repubblica. Quella tesi mirava a rivalutare l’iniziativa di De Gasperi sulla legge elettorale “a premio” (1953, legge truffa), e appunto voleva sostenere la necessità di tornare sulla questione della forma di governo, indicata al tempo come maggior limite della Costituzione. Come la storia ha mostrato poi, tutta la vicenda della manipolazione elettorale ha avuto tuttavia il fiato corto. E comunque il giudizio su Moro, politico “disattento” alle questioni istituzionali, era sbagliato. Al contrario egli era uno dei pochi dirigenti democristiani dotati di senso delle istituzioni e di rispetto per la Costituzione. Lo dimostrò nel 1952, quando fu il solo nella Dc a obiettare sulla eccessiva entità del premio di maggioranza: si sarebbe consegnato a un governo il quorum dei due terzi necessario a modificare la Costituzione stessa. E lo dimostrò nel ‘69-70, quando si oppose alle prime proposte presidenzialiste, che nella Dc stavano prendendo forza (Fanfani, Andreotti, ma anche il giovane Mario Segni, e il gruppo di “Europa 70”, Ciccardini e altri).

Le sue critiche non nascevano da ragioni strumentali nella lotta interna. Egli espresse un’acuta preoccupazione per gli assetti e l’autonomia istituzionale del Paese. A chi vagheggiava l’idea di trasformare il governo in una tecnostruttura e il presidente in un potere di diretta emanazione popolare, Moro obiettò: “Così quei poteri saranno più deboli”, non più forti, perché più stretto sarà il numero di coloro che prenderanno decisioni e più “esposti essi saranno a condizionamenti esterni”. E, con la sua straordinaria esperienza di ministro degli Esteri, sapeva bene di cosa parlava. Moro aveva la percezione di quel che, anni dopo, sarà chiamato “interdipendenza” tra gli Stati. I condizionamenti certo ci sono. Il punto è se li si subisce passivamente o, scelta una data alleanza, si esercita la propria autonomia nazionale per “mediare” le esigenze interne anche rispetto a quei condizionamenti. Negli anni ‘70 questo nodo fu messo a dura prova. La strategia della tensione, lo stragismo e gli apparati di sicurezza “deviati”, e poi i terribili Anni di piombo che portarono il Paese a una sorta di guerra civile, sono oggi letti dagli studiosi più attenti come episodi di quella Guerra fredda est/ovest che bloccò la democrazia in occidente e anche le timide “primavere socialiste”.

A Moro era chiaro che solo in un diverso scenario l’Italia avrebbe potuto pensare d’uscire dalla sua particolare condizione di blocco, con l’avvio di possibilità di alternanza al governo. Per questo non disse mai sì al “compromesso storico”, lavorò a prendere tempo nella speranza che la politica della distensione, di cui era un riconosciuto protagonista internazionale, desse frutti più consistenti. Ma gli fu impedito di continuare a lavorare a questo. Nel ‘78 fu rapito e ucciso dalle Br, senza che il governo Andreotti facesse nulla prima per proteggerlo, e nulla dopo per liberarlo. La tesi del complotto, o della connivenza oscura tra brigatisti e servizi segreti di vari Paesi, da molti sostenuta, non è stata provata nei ripetuti processi e neppure nelle attività parlamentari di indagine. Tuttavia non è stata neppure accertata tutta la verità. Questo impedisce alla coscienza di chiunque di ritenere chiuso ogni interrogativo circa quel capitolo della storia nazionale. Quel che è sicuro, anche grazie ai due straordinari libri dello storico Miguel Gotor sulle sue carte dalla prigione brigatista, è che fino all’ultimo quell’uomo straordinario lottò per salvare il Paese e la democrazia.

Giuseppe Cotturri
Docente di Sociologia del diritto e Sociologia della politica presso l’Università Aldo Moro di Bari


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