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Berlusconi, la Convenzione per le riforme e la schizofrenia del Pd

Forse tra qualche anno, riflettendo lontano dall’agone sul ventennio appena trascorso, molte colpe verranno attribuite a Silvio Berlusconi, ma non quella di non essere un fine stratega politico.

Dato puntualmente per morto e altrettanto puntualmente rinato, l’ex presidente del Consiglio ha questa volta realizzato il suo vero capolavoro elettorale: vincere da sconfitto.

È un dato di fatto che il Popolo della Libertà, pur uscito dalle urne come terza forza dell’arco parlamentare, stia ora dettando l’agenda del governo di larghe intese di Enrico Letta.

Berlusconi, da imprenditore qual è, non si accontenta però di mezze misure e dopo aver giocato in questo esecutivo non solo vuole indietro la puntata – chiare garanzie per il futuro – ma prova a conquistare l’intero banco.

Con la cautela e la freddezza del giocatore d’azzardo, l’ex premier prepara il suo attacco finale: ottenere la presidenza della Convenzione per le riforme, una sorta di costituente che vorrebbe dare un afflato di vita alla Terza Repubblica.

Bondi, Matteoli, Cicchitto, Gasparri, Polverini: un coro di richieste è giunto a Letta e al presidente Giorgio Napolitano per l’assegnazione a Berlusconi del delicato incarico.

Il piano di Berlusconi – e con molta probabilità del suo più fidato consigliere politico, Gianni Letta – sembra però procedere faticosamente tra veti incrociati e dichiarazioni al vetriolo.

Uno dei leader del Partito Democratico, Matteo Renzi, non ha nascosto la sua contrarietà all’operazione, dichiarando che è giusto che il centrosinistra abbandoni l’ossessione dell’antiberlusconismo, ma che “farlo padre della costituente” è “inaudito”.

Allo stesso modo, un nome non certo vicino al sindaco di Firenze come quello del “giovane turco” Stefano Fassina, viceministro all’Economia in questo governo, ha detto al Tg3 che per la presidenza della Convenzione sulle riforme si deve “trovare una figura in grado di dare garanzie a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Temo – ha aggiunto – che il senatore Berlusconi non sia fra questi”.

Frasi, queste, che infiammano un clima già rovente per la poca disponibilità del presidente del Consiglio Enrico Letta e del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, a concedere l’eliminazione dell’Imu, una misura bocciata dall’Europa e dall’Ocse, ma fortemente voluta dal centrodestra, che la lega alla tenuta in vita del già traballante esecutivo.

Proposte a parte, il dato politico rimane però quello della sostanziale schizofrenia dei democratici, per l’ennesima volta ben lontani dall’essere compatti o coerenti.

È o no, quello attuale, un governo di larghe intese? Se lo è, costituisce un’incomprensibile anomalia avallare un governo col Pdl, ma non consentire che ad esso possa prendere parte il leader di quel partito. Cosa accadrebbe a parti invertite? Non avrebbe forse Pierluigi Bersani lo stesso diritto di reclamare un ruolo di primo piano in un governo condiviso?

Più onesto sarebbe stato tornare al voto; ma se il Pd vuole che l’esperienza di questo esecutivo continui, dovrà necessariamente abbandonare i toni di un confronto bipolare, per accettare l’esistenza e il ruolo del suo storico avversario.

D’accordo, Berlusconi è un’anomalia, così come la politica non è una scienza esatta, ma è fatta anche di freddi numeri, che hanno un loro valore. E per il Pd il prezzo di questo governo, piaccia o no, è proprio questo: la presentabilità di Silvio Berlusconi.


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