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Bini Smaghi e la mortifera austerità

Nel nuovo lavoro Lorenzo Bini Smaghi (più oltre LBS) offre al lettore una sintesi del suo pensiero sul funzionamento delle istituzioni europee, con una particolare attenzione all’euro, una moneta che ben conosce per essere stato nel direttivo della Banca Centrale Europea.

La presentazione del lavoro edito dal Mulino risulta di piacevole lettura e molto efficace per l’organizzazione che egli ha dato ai Capitoli, i quali esordiscono con una breve esposizione della problematica esposta in forma di quesito, alla quale fa seguito una risposta argomentata composta da ciò che si dice in giro e da sue valutazioni personali.

Il titolo del libro non deve trarre in inganno. Esso, infatti, induce a ritenere che LBS intenda criticare l’attuale politica fiscale e monetaria europea ma, nonostante la ricerca di un equilibrio espositivo tra i pro e i contro, conclude quasi sempre che non vi è alternativa a quella di “fare le riforme”, le quali implicano ciò che oggi viene definita “austerità fiscale” ancor più che monetaria. Questa politica è, secondo LBS, “il frutto dell’incapacità dei sistemi democratici di affrontare tempestivamente, e con misure adeguate, i problemi che stanno attanagliando i paesi avanzati.” Se non sapessi per certo che Bini Smaghi non ha vocazione antidemocratica avrei messo da parte il libro e cessato di interessarmi al suo punto di vista; l’affermazione tuttavia  comunque mi preoccupa, anche perché è riflesso di quel nervosismo che si va diffondendo tra i gruppi dirigenti a causa della non rispondenza (lasciando da parte l’incapacità) delle istituzioni democratiche alle esigenze correnti dell’economia produttiva. Invero questa è stata la matrice dei totalitarismi che tanto danno hanno causato al mondo, ma lascio questo problema nelle mani della teoria politica, che la stanno curando sul piano logico da millenni.

Il modo migliore per inquadrare l’intera analisi di LBS è quella di partire dalle sue conclusioni sul da farsi, che egli divide in due categorie operative, quella di guadagnare tempo o quella di intervenire subito. Secondo le sue valutazioni, ciò che si va facendo rientra nella prima categoria, mentre l’intervento necessario (che definisce “prendere il coro per le corna”) è appunto “fare le riforme”.

Quando nel 2005 ho preparato il “Piano di riforma” per l’Italia nel quadro dell’attuazione della seconda fase della “Strategia di Lisbona” decisa nel 2000 (una delle iniziative europee più solide sul piano logico e pratico, depotenziate in sede di attuazione!) mi rifiutai di usare questo termine, perché logoro e irritante. Logoro perché, come disse Jean-François Lyotard sul postmoderno, è un concetto privo di significato che ne guadagna uno, solo  ripetendolo all’infinito. Irritante perché, esso nasconde l’arbitrio del forte sul debole o, secondo un’ottica diversa, il rafforzamento del forte e l’indebolimento del debole.

Per dare un contenuto a quelle che considera le riforme necessarie LBS avanza quattro “spunti di riflessione”.

“Il primo spunto riguarda la necessità che i cittadini europei diventino pienamente consapevoli che il modello di sviluppo economico e il sistema di welfare creati nel Novecento non sono più compatibili con il nuovo contesto globale.” Cioè dobbiamo tornare indietro sul piano civile perché non ci sarebbero le risorse, che è e resta una tesi indimostrata. Le risorse non ci sono perché non ci sono iniziative. Il risparmio è frutto dell’impulso dato alla domanda globale.

“Il secondo spunto riguarda l’indipendenza degli organi predisposti a fornire input essenziali per la conduzione della politica economica, o a controllarne l’operato.” E cita il ricorso costante alla tassazione per continuare a spendere al fine di non perdere consenso e, avvertita la pericolosità di questa pressione, i “pressanti appetiti politici” sulle banche centrali affinché creino più moneta.

“Un terzo spunto riguarda i vincoli costituzionali che limitano i margini di discrezionalità di una politica economica eccessivamente di breve periodo.” E suggerisce limitazioni agli interventi dei Governi per costringerli a operare più a lungo, citando l’accordo di “fiscal compact”, ignorando le obiezioni di invalidità giuridica di Giuseppe Guarino, che pure conosce. Propone cioè di accentuare le rigidità gestionali, ossia proprio quelle da cui nascono i problemi.

“Un ultimo spunto di riflessione riguarda l’impatto delle tendenze demografiche sulle scelte di politica economica”, un argomento importante purché non implichi le conseguenze della prima riflessione: rinunciare al welfare perché siamo in troppi sulla terra.

Debbo ammettere che preferisco l’analisi del testo piuttosto che gli spunti di riflessione, i quali non contengono proposte per andare avanti, ma solo per continuare a tornare indietro, anche se il capitolo III è dedicato al tema che “Indietro non si torna”; ma LBS lo intende nel senso che alla politica di austerità non vi è alternativa, ignorando un problema alla portata del suo sapere, quello della politica di abbondante creazione monetaria seguita dagli Stati Uniti e dal Giappone che espropriano spazi di crescita all’Unione Europea, se la BCE non segue le stesse politiche. Guido Carli insegnava che nella politica monetaria si deve sempre seguire il compagno “discolo” e non mettersi a fare i virtuosi se altri non lo sono. Facendo come gli altri si certifica l’inutilità di queste politico di rilancio. Distinguendosi in termini di moderazione, si ratificano i vantaggi che altri ottengono.

Addentriamoci perciò nel corpo del lavoro, soffermandoci  sul Capitolo XIV. Egli dice che “Le misure di bilancio messe in atto per risanare i conti pubblici hanno provocato effetti fortemente recessivi sull’attività economica, peggiorando la dinamica del debito nel breve periodo. L’aggiustamento andrebbe spalmato nel tempo, per diluirne l’effetto recessivo. Ma ciò è possibile solo se, e fin quando, lo Stato riesce a indebitarsi sui mercati finanziari a condizioni sostenibili.” Per l’Italia, egli critica il fatto che la situazione è stata affrontata dal lato che maggiormente incide negativamente sull’attività produttiva, quello dell’imposizione fiscale e non del taglio delle entrare. Questa appare la parte valida dell’analisi di LBS, anche se le critiche si indirizzano al Governo Monti ex post e non ex ante, quando sarebbero servite. Per giunta la conclusione di LBS prescinde dal contributo dato alla crisi da scelte fatte in ritardo o non fatte da parte delle istituzioni europee, anche di quella in cui egli ha operato in posizione di responsabilità. Gli altri capitoli hanno come linea guida l’idea che le politiche europee di austerità vanno nella giusta direzione e che richiedono solo un’integrazione a livello nazionale che ne esaltino gli effetti positivi. La conclusione di questo Capitolo conferma questa interpretazione: di austerità  non si muore  e “il rischio di morire … è attribuibile solo all’incapacità delle istituzioni politiche di prendere le decisioni giuste al momento giusto.”

Sarebbe lungo addentrarsi in tutti i quesiti e le risposte contenuti nel lavoro di LBS. Le argomentazioni fin qui esaminate sono però sufficienti per abbracciarle tutte, ma su una in particolare conviene ancora soffermarsi, quelle contenute nel Capitolo II intitolato “Una nascita prematura”. Il quesito che LBS si pone è se “La nascita dell’euro avrebbe potuto essere rimandata di qualche anno, per consentire una piena convergenza economica e politica tra i paesi membri. Si sarebbe così evitato di mettere il carro avanti ai buoi” e la sua conclusione è quella consueta: “l’unione monetaria non sarebbe probabilmente mai nata”. Egli ritiene, è ovvio, che, se non fosse nata, sarebbe stata una grave perdita (per tutti?). Questo Capitolo, tuttavia, che è al terzo posto considerata l’”Introduzione”, è di fatto l’incipit dell’intero lavoro; ha una parte analitica molto solida, da cui però l’autore non trae le dovute conseguenze o, meglio, non trae la conseguenze che possono essere tratte. La parte solida è che “Fin quando coesistono monete diverse, i mercati non riescono a integrarsi pienamente”. Perfetto, one market, one money è il presupposto di ogni mercato unico (come non è il mercato globale, spacciato come unico, ma la BCE raramente tratta questo argomento e lo applica alla sua azione, usandola invece per chiedere ai Governi e ai lavoratori di rispettare le sue – lo diciamo con eufemismo – imperfezioni). LBS riconosce però che la moneta unica senza unione politica non regge e, quindi, è afflitta da “un’inerente fragilità e incompletezza”, ma vale correrne i rischio; l’ammissione rende l’analisi accettabile, ma non l’implicazione. Per trovare il terzo punto di forza della diagnosi di LBS, quello della natura non ottimale dell’area monetaria europea, bisogna cercare però altrove, per l’esattezza nell’Introduzione, ma va ancora una volta osservato che neanche il riconoscimento di questo difetto strutturale del sistema lo induce a chiedere una seria riforma dell’istituzione. Va anche detto che, all’epoca in cui egli esercitava le funzioni di banchiere centrale, la BCE produceva paper che negavano la validità di questa realtà, senza che si sia mai opposto. Eppure il problema della debolezza nascente dalla mancanza di un’unione politica è strettamente connesso con le scelte necessarie a livello comunitario per correggere i dualismi territoriali, settoriali e dimensionali tra paesi membri facendo riscorso a una politica fiscale comune, finalizzata allo scopo.

Ciò comporta lo spostamento dell’asse dell’analisi di LBS dalle politiche nazionali e alle riforme istituzionali dell’Unione Europea. Queste sono state recentemente analizzate da un gruppo selezionato di studiosi e operatori nell’Appello per un nuovo Trattato Europeo [si veda nello stesso sito di Formiche]. Questa problematica non è assente nel lavoro di LBS, ma è posta in secondo piano per due motivi principali: perché egli sa bene che sarebbe difficile affrontarla e perché ritiene che le democrazie non siano capaci di affrontarla. Noi siamo di avviso contrario. La nostra diagnosi vale la sua, perché esistono una miriade di argomenti a favore e contro. Il mio sospetto è che l’economia abbia cessato d’essere la scienza che lotta contro la povertà e si è messa la servizio di un ritorno a questo status in gran parte per i giovani e i vecchi non abbienti). La scienza economica (europea?) fornisce adeguate giustificazioni ad azioni “riformista” di dubbia efficacia: questo è ciò che vuol dire, per noi, “morire di austerità”.


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