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Obama e la Siria, come fare politica estera ai tempi di Twitter?

Nel 2007 il bombardamento israeliano del centro di ricerche nucleari nella regione di Deir-er-Zoz, nel deserto siriano, fu nascosto, non ufficialmente smentito, e comunque passò nel sostanziale silenzio dei media. Nel 2013 le colonne di fumo che si levano dalle colline di Damasco, colpite dai raid israeliani, hanno fatto il giro del mondo. Di mezzo, ci sono sei anni di impetuoso sviluppo dei media, che si intrecciano sempre più con le tecnologie di internet.

Che cosa comporta questa situazione per i decisori in politica estera? Secondo Robert Kaplan di Stratfor.com le scelte hanno sempre più il fiato corto, ovvero dispongono di “poco tempo prima di essere dichiarate fallimentari”. E il dilemma è ancora più grave per gli Stati Uniti, dove il sistema dei media non è pienamente consapevole dei limiti della potenza americana. Di qui, la continua richiesta di intervenire, per esempio in Siria. Sarebbe, nota Kaplan, un errore, perché legherebbe indissolubilmente il secondo mandato di Obama alla soluzione (o non-soluzione) della crisi siriana, che non è certo controllabile esclusivamente da Washington.

Media frenetici richiedono in continuazione immagini e dichiarazioni spettacolari e non sono certo soddisfatte con una politica di basso profilo. Eppure è proprio questa l’unica strada, secondo Kaplan, per non farsi travolgere, magari per farsi amare poco durante il mandato, guadagnando però stima e considerazione in prospettiva storica. La visita di John Kerry a Mosca forse soddisferà poco il demone dell’informazione 24 ore su 24, e verrà travolta da un mare di tweet negativi di chi denuncerà “l’arroganza Usa”, e chi l’eccessiva “prudenza”. Ma è il prezzo da pagare se la diplomazia della maggiore potenza mondiale, come in fondo è quasi sempre stato in passato, non cerca una facile popolarità di breve periodo.



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