Ero con Pitruzzo e Cicciuzzo, nomi in codice di una brigata che conversa, in sintonia, di natura, vizi e virtù davanti a due bottiglie d’acqua: una liscia e una gasata.
E’ Cicciuzzo che sciunnica (“stuzzica” per le minoranze linguistiche) la questione del registro. Vedete, fa Cicciuzzo, che la forma dialettale estende la gamma di registri a disposizione. Da aristocratico il proferire può farsi basso e triviale come quando parli di minni, culi e fornicare.
Vero è. Ma non è solo questione di lingua e linguaggi. Il registro è una cassetta degli attrezzi con tanto di parole, sintattiche forme, aggettivi e apostrofi ma anche di segni, occhiate, mosse e contromosse, che il bravo mastro, alla bisogna, sa come utilizzare. E non c’è mastro, fatto e finito, senza apprendistato. Non s’impara un mestiere senza essere stati a bottega, dove, con altri apprendisti e il maestro, della vita e l’arte, si è fatta esperienza. Scoprendo, di situazione in situazione, dove ogni attrezzo va usato, imparando, per imitazione, come la forma viene dal pieno svuotato.
Ora, nella vita reale a ciascuno, purtroppo, in funzione dell’attività che svolge capita di usare prevalentemente un registro, uno soltanto. E’ l’istinto perverso dell’uomo di questa epoca in eterna fine che lo induce ad apparecchiarsi un domani simile all’oggi. Chi invece ha scelto una vita più degna del nome, più incerta che certa, di più registri dovrà fare uso continuo. Ma cos’è il registro se non è pura lingua?
E’ un codice. Un insieme di segni, di espressioni, di modi fare, è il risultato di una cultura che cerca il punto d’incontro con quella che gli sta dirimpetto per entrare con essa in sintonia e con essa comunicare. E’ quel codice che uno elabora, al momento, in funzione dell’occasione che oggi è opportunità, domani anche una brutta situazione.
Ci vogliono antenne diritte, ci vuole esperienza del mondo e degli uomini. Come quando al circolo unione, facevi il quarto, piccolo, a una partita a scopone con i tre vecchi amici del nonno, marpioni. Non si vincono partite a scopone solo contando le carte che sono uscite, o studiando la giocata dell’avversario, l’apparecchiarsi del sette che viene scunsato dal compagno per sviare, o inviare informative a mezzo carte nel silenzio del gioco. Le partite si vincono barando applicando un codice di segni che l’avversario cerca di decifrare guardandoti l’occhio come il medico bravo che nel giallo dell’albume coglie la patologia avanzare. Al tavolo da gioco che è metafora della vita dove si sintentizzano le stesse logiche di una trattativa danarosa, di un colloquio di lavoro, di un’importante riunione, dovrai trovare il modo di convincere gli avversari che si possono fidare anche quando è nei fatti che hai un obiettivo che a loro non può piacere.
Di tutti i segni sono quelli non verbali che fanno il registro. E tra tutti, il silenzio è il segno che conferma il sugellarsi dell’affinità. I due amanti, in silenzio, ascoltano il loro respiro. Gli amici per ore stanno, sotto il bagolaro, a fumare senza dirsi nulla. Agli uomini d’affari, a volte, basta solo l’impeto della stretta di mano per capire se impugnerà la penna per metter la firma.
Gli scienziati della comunicazione, tatuati di hashtag, guardano con diffidenza e chiamano omertà il registro che non capiscono.