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Il futuro della Difesa europea

Cinque possibili strade per capire come potrà essere la difesa europea nel 2025. “Sebbene gli europei siano ancora relativamente ben equipaggiati per mobilitare gli strumenti contro potenziali minacce, nell’Unione europea c’è una limitata consapevolezza delle sfide emergenti, un disinteresse di base sulle questioni strategiche e relativamente poche voci che chiedono forze armate efficienti e sostenibili”, si legge in “Enabling the Future. European military capabilities 2013-2025: challenges and avenues”, ultimo rapporto dell’Institute for Security Studies.

Dalla fine della Guerra Fredda, i Paesi dell’Unione hanno portato avanti una serie di riforme dei propri sistemi militari e di difesa. Ci si è mossi verso eserciti più piccoli e di professionisti. Si è consolidata la cooperazione in tema di sicurezza anche con l’istituzione di organismi comuni come l’Agenzia europea per la Difesa e il Servizio di azione esterna, di fatto il ministero degli Esteri dell’Ue.

Sono state lanciate la politica comune estera e di sicurezza e la politica comune sulla difesa, così da sostenere il ruolo europeo negli affari internazionali in particolare nelle operazioni di peacebuilding. Il rapporto segnala anche quelle che considera le criticità del sistema, in particolare l’eccessiva pressione cui rischia di essere sottoposta in futuro la capacità militare dell’Unione. Tra le cause la crisi economica che preme sul Continente e non risparmia i bilanci della Difesa, spesso condotti senza consultarsi con gli alleati.

In quest’ottica ipotetici scenari delineati sono interessano tanto le Forze armate quanto l’industria bellica. In un ipotetico calendario la prima tappa se il processo dovesse andare avanti è ritrovarsi con forze armate “bonsai” sia per la formazione delle truppe sia per la capacità di reazione. Tra cinque-otto anni si potrebbe invece assistere a un maggiore interesse dell’industria del Continente verso acquirenti extra-europei, aumentando quindi la dipendenza da questi committenti. Tra otto o dodici anni questo porterebbe a un calo dei fondi nella ricerca e al rischio della deindustrializzazione europea nel settore della difesa, si legge nel rapporto.

Un ammonimento in questo senso è arrivato la scorsa settimana dal segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen ai componenti del comitato per gli affari esteri del Parlamento europeo. Il soft power da solo non è vero potere, ha detto il numero uno dell’Alleanza Atlantica, esortando gli europei a investire nella difesa e nella sicurezza. Una visione non condivisa da tutti gli osservatori, come si legge in una rapporto dell’Istituto per le ricerche sulla pace di Staccolma, Sipri. Il documento cita esperti che ricordano come il raggiungimento di determinati obiettivi attraverso l’azione militare è limitato – e i casi iracheno, afgano, libico potrebbero essere degli esempi.

O chi, come il francese Le Guelte sulla Revue Defence National ricorda come il rapporto tra percentuale del Pil investita nella difesa e influenza strategica non siano necessariamente collegate e i rischi paventati siano vaghi. Altro punto individuato dal rapporto sull’attuale situazione della difesa europea è l’eccessivo uso di fondi per spese di personale e strutture a terra e per un eccesso di alcuni strumenti, oltre quanto sarebbe necessario, mentre si segnalano carenze in alcune aree verso cui si stanno muovendo le trasformazioni del settore militare, segno anche delle “difficoltà ad adattarsi ai nuovi paradigmi delle operazioni militari: importanza delle reti e conflitti in coalizione e le spedizioni all’estero”.

Infine c’è il problema di un mercato della difesa ancora frammentato sia per quanto riguarda la domanda sia l’offerta. I Paesi con importanti industrie della difesa preferiscono comprare in casa e quando c’è stata cooperazione questo a portato a un aumento di costi e problemi tecnici. Difficoltà che si mischiano a fattori esteri come la sempre maggiore globalizzazione, l’emergere di nuovi attori regionali, soprattutto in Asia, il riposizionamento strategico, economico e politico statunitense nella regione del Pacifico. Il rapporto traccia cinque strade che non si escludono a vicenda e che servono a definire un “interesse comune europeo”.

Occorre consolidare l’efficienza, riducendo le capacità militari ormai obsolete così da risparmiare per il presente e per il futuro. In questo senso gli Stati membri potrebbero chiedere al Servizio esterno di fissare degli obiettivi in una Eu military review. La seconda strada è cercare di ottimizzare gli sforzi per migliorare l’efficacia dello strumento militare. Ancora, scrive il rapporto, c’è bisogno di promuovere l’innovazione nella tecnologia militare anche adottando idee già messe in piedi dalla Nato o dalla Commissione europea in altri settori.

Occorre rafforzare la regionalizzazione così che le isole di cooperazione che uniscono già diversi Paesi europei diventi coordinati dall’Ue sorta di arcipelaghi. Da ultimo serve una maggiore integrazione. Ciò di cui non bisogna avere paura è invece la perdita di sovranità. Sotto alcuni aspetti ciò sta già avvenendo, tuttavia senza che ci sia maggiore regionalizzazione, integrazione, innovazione. Questo però richiede un’azione politica, conclude il rapporto.

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