Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi sul numero odierno del quotidiano Italia Oggi del gruppo Class Editori.
Il business dell’acciaio è diventato, nel giro di pochi anni, molto competitivo su scala globale. Il primo produttore al mondo, con una quota di mercato vicina al 10%, è l’indiano Arcelor-Mittal, seguito da due produttori cinesi (la Cina vanta ben 10 dei primi 20 maggiori produttori di acciaio grezzo al mondo, ndr), poi ancora imprese coreane e giapponesi. Nessun europeo è tra i primi dieci produttori del mondo, il primo in classifica è il gruppo tedesco ThyssenKrupp al diciassettesimo posto. L’Italiana Ilva, parte portante del Gruppo Riva, nel 2011 era al ventunesimo posto, 1,8 milioni di tonnellate di produzione annua dopo l’impresa tedesca. La globalizzazione ha rivoluzionato equilibri e quote di mercato di un business nato nella vecchia Europa.
I grandi gruppi cinesi giocano secondo gli schemi cinesi; sono parti importanti dell’economia mista gestita dal Partito comunista. Gli altri protagonisti sono, normalmente, gruppi conglomerali nei quali l’acciaio è solo una parte del fatturato consolidato. Anche l’oligarca russo Alexei Mordashov, proprietario “latitante” dell’acciaieria Lucchini, abbandonata a se stessa tanto da costringere il governo a nominare l’eccellente commissario straordinario Piero Nardi, possiede un gruppo conglomerale: Severstal.
Quello dell’acciaio non è più, forse, un business da imprese familiari con poca voglia di investire in un settore ad alta intensità di capitale. La fuga dei Riva e dei Lucchini, con modalità diverse, dal comparto può anche essere spiegata così: l’acciaio non è più mercato per imprenditori senza il mappamondo tra le mani e una ambiziosa visione industriale. Non si può più tirare a campare traccheggiando con i Nicki Vendola di turno.
L’Italia dell’acciaio è a un bivio: o nazionalizza e mette insieme Ilva e Lucchini oppure esce dal comparto. Se il governo Letta ha coraggio deve procedere per la nazionalizzazione a scadenza, come hanno fatto gli inglesi con le banche e Obama con l’auto. L’altoforno Lucchini di Piombino, oggi utilizzato al 50%, metterebbe a disposizione dell’Ilva 2 milioni di tonnellate di produzione annua aggiuntiva. Capacità produttiva importante per poter pianificare lo spegnimento seriale dei tre altiforni di Taranto, come richiesto per la bonifica ambientale, senza rischiare di perdere quote di mercato. Ovviamente serve un Sergio Marchionne che sappia, in quattro o cinque anni, trasformare la fusione tra Ilva e Lucchini in un’impresa competitiva, quotabile in borsa per farne una public company. In ballo ci sono 40 mila lavoratori dell’Ilva e 5 mila della Lucchini che chiedono, a chi è pagato per decidere, di avere coraggio senza se e senza ma.