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L’Istat vede l’Italia ammalata

Un’economia malata, in cui le imprese tentano di risollevarsi e le famiglie, pur sfiduciate dalla politica e pessimiste in materia del futuro dell’economia, cercano di riaggiustare i propri modelli di vita e vedono aumentare la loro soddisfazione per le relazioni familiari ed amicali.

Un male strutturale
Questo il quadro che emerge dalla lettura del Rapporto Istat 2012. Il primo elemento che si trae è che non siamo al termine di sette anni di vacche magre e che, quindi, non ci aspettano sette anni di vacche grasse. Il male dell’economia italiana è strutturale; abbiamo mostrato, e stiamo ancora mostrando, pochissima efficienza adattiva alle trasformazioni dell’economia internazionale in corso dagli Anni Novanta. Nell’ultimo decennio, la produttività del lavoro è aumentata appena dell’1,2% rispetto ad un incremento del 9,5% nell’eurozona nel suo complesso. L’industria manifatturiera (il vero motore di un Paese trasformatore) ha perso, nello stesso arco di tempo, un quarto circa del proprio fatturato; c’è stato, nell’ultimo anno, un miglioramento dell’export, esso riguarda però solo una frazione del comparto manifatturiero e non in grado di trainare il resto del sistema.

I confronti con Francia e Germania
Tra il 2008 ed il 2012, il Pil dell’Italia è diminuito del 6% circa, mentre quello della Francia è rimasto stazionario e quello della Germania è aumentato del 2,5%. Si è ridotto il Pil pro-capite e, quindi, il reddito disponibile delle famiglie con effetti negativi su consumi, investimenti e tasso di risparmio. In questo quadro sono migliorati i saldi di finanza pubblica, si è registrato un forte avanzo primario e si è ridotto l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, grazie ad un leggero contenimento delle spese correnti ed un forte (invece) inasprimento della pressione tributaria e contributiva; ciò nonostante, a ragione della contrazione del Pil, il rapporto stock di debito pubblico: prodotto interno lordo è aumentato toccando il 127.

Cercare una via d’uscita
In questo contesto, le imprese continuano ad operare sperando in tempi migliori: una sezione del documento illustra le strategie di upgrading (miglioramento della qualità dei prodotti e dell’efficienza dei processi) per continuare a competere, ma la stretta creditizia ed i ritardi biblici delle pubbliche amministrazione nel pagare i loro debiti verso il sistema produttivo, le soffocano.
Anche le famiglie, il cui reddito disponibile è tornato a quello di venti anni fa, e su cui c’è un peso sempre più forte del carico fiscale, stanno cercando una via d’uscita. Si sono aggravati i divari territoriali, è raddoppiata la proporzione dei nuclei in gravi difficoltà, aumenta l’indice di deprivazione e la sfiducia nella politica. Cresce, però, la soddisfazione nelle relazioni amicali e familiari e nel lavoro (per chi riesce a trovarlo o a non perderlo).

Le determinanti meta-economiche
L’Istat non può fornire, nell’ambito dei suoi compiti istituzionali, che una radiografia. Da essa si evince non solo il carattere strutturale non congiunturale della crisi ma anche l’importanza delle determinanti meta-economiche. A riguardo, vale la pena soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un notevole dibattito nel mondo accademico anglo-sassone ma non sono citati nei “Quaderni di storia economica” della Banca d’Italia e non appaiono nel dibattito italiano. I due libri esaminano, in modo differente, temi simili ‘Why Nations Fall: The Origins of Power, Prosperity and Poverty’ di Daron Acemoglu e James Robinson (2012) e ‘Pillars of Prosperity; The Political Economy of Development Clusters’ di Timothy Besley e Torsten Persson (2011).
Sono due lavori differenti. Sulla base di regressioni statistiche per un vasto campione di paesi (Besley e Persoson) e di una narrativa che parte dalle civiltà antiche, ambedue (Acemoglu e Robinson) giungono alla conclusione che “non esiste un’ingegneria economica per la crescita” e che le determinanti meta-economiche più significative sono quelle politiche. Per Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce “un assetto istituzionale inclusivo” (in cui si incoraggia la partecipazione e quindi la equa suddivisione di costi e benefici); se resta al palo con “un assetto istituzione estrattivo” che “arricchisce chi decide a spese del resto della società”. Ci rifletta il Governo invece di arruffarsi su misure “congiunturali” di breve respiro.



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