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La condizione dei giovani italiani: un’emergenza ignorata

La condizione dei giovani italiani è altamente drammatica.

Da qualche giorno è stato pubblicato sul sito fondato da Tito Boeri, un interessante dossier dedicato alla disoccupazione giovanile e più in generale alla “condizione giovanile” in Italia. I dati sono allarmanti e questo non è un segreto per nessuno.

Mentre la disoccupazione giovanile continua a crescere (siamo già oltre al 36%) la Politica resta bloccata su temi che non interessano a nessuno: la diaria da dividere e restituire, gli scontrini, le alleanze, il nome per il Presidente della Repubblica, lo streaming, i processi di Silvio Berlusconi, i 101 franchi tiratori di Romano Prodi, le correnti e le correntine del PD. Certamente questi temi fanno parte della dialettica politica e hanno la loro rilevanza, ma il Paese ha problemi decisamente più urgenti: il lavoro, prima di tutto. Sarebbe ora che questa emergenza fosse affrontata di petto, e non solo con gli annunci in TV.

Del Boca e Rosina scrivono che “i giovani italiani risultano essere non solo una risorsa scarsa, ma anche più sprecata e meno valorizzata che altrove. Sono infatti oltre due milioni gli under 30 che non studiano e non lavorano. Sospesi in quel tempo morto che separa episodi di lavoro precario da brevi corsi di formazione. Appaiono, nel rapporto Istat, come un esercito immobile. Non reso attivo da chi guida il paese per creare sviluppo e ricchezza, ma nemmeno mobilitato “dal basso” per proteste e lotte contro gli squilibri generazionali”.

L’esercito immobile è in crescita e se questa condizione di “immobilità” non viene risolta, il Paese intero non ha speranze per uscire da questa crisi.

Le notizie che girano in questi giorni sui giornali non sono affatto rassicuranti. La soluzione alla discoccupazione giovanile è la flessibilità e la maggiore precarietà dei contratti? Personalmente credo di no. Lo sgravio fiscale, invece, è un ottimo strumento di incentivazione per le imprese che vogliono assumere giovani laureati e non, in base alle mansioni e competenze. Sicuramente non si deve permettere che a fronte di un bisogno (l’occupazione giovanile) si lasci crescere poi la precarietà lavorativa. Essere precari a vita non è certo la soluzione dei problemi dell’occupazione. La mission  dovrebbe essere creare buona occupazione e stabile.

Certamente non è facile, ma un Governo deve avere una visione più articolata di me che scrivo su uno spazio online o che faccio riflessioni teoriche. Un Governo di un Paese in crisi deve trovare ricette che abbiano la capacità di risolvere il problema sul lungo periodo, non misure per tappare qualche buco allo scolapasta.

Le imprese devono essere incentivate ad assumere i giovani e non a sfruttarli. Gli stage, per esempio, sono uno strumento utile che dovrebbe essere impiegato maggiormente, ma all’interno dei percorsi di studio, con una compartecipazione delle scuole e delle università (quando previsto) e dello Stato (a livello comunale e regionale). Lo Stage è spesso uno strumento per avere manodopera senza pagarla e per poi non offrire garanzie né prospettive.

Lo Stage dovrebbe essere pagato, come accade in altri Paesi e se lo scopo è incentivare l’assunzione, allora questa spesa dovrebbe essere condivisa con le istituzioni. Uno stage durante il periodo scolastico/universitario fa parte di un ciclo formativo e di un investimento di lungo termine che l’impresa può fare, credo sia giusto e doveroso che questo lavoro sia retribuito: 400 euro al mese, metà pagate dall’impresa, metà dallo Stato.

Le agevolazioni e gli incentivi di cui ha parlato recentemente il ministro Giovannini mi sembrano una cosa molto importante ed utile, staremo a vedere in che direzione andranno. Spero che questi incentivi non siano finanziamenti a pioggia, che sono dispersione di risorse e un rischio notevole.

Concludo con un’osservazione più generale, che si ricollega ai miei studi passati sulla cooperazione istituzionale e sulla “responsabilità sociale” delle imprese e delle istituzioni.

La questione giovanile è un’emergenza da troppo tempo ignorata: è iniziato tutto (si fa per dire) con i NEET (colore che non studiano e non lavorano) già da diversi anni. Nessuno se ne è preoccupato. Ora siamo ad una condizione di espasperazione tale che le prospettive sembrano essere due:

1) emigrare sperando in qualcosa di meglio (e fidatevi, non è sempre così..)

2) rassegnarsi e smettere di crederci.

Affinchè queste alternative non siano davvero solo queste, credo che occorra ripensare in modo radicale il modo in cui la Politica si approccia alle tematiche del lavoro. Non più decisioni TOP-DOWN che piovono in modo improvvisato, quanto piuttosto una condivisione a tutti i livelli istituzionali delle decisioni e delle proposte, quindi un approccio BOTTOM-UP. Una cooperazione allargata tra i vari livelli sociali e istituzionali, dove il territorio individua le proprie risorse e collabora a trovare un piano di intervento aderente alla realtà locale e alle vere esigenze produttive e lavorative.

Lo Stato, di contro, ha l’obblico (avrebbe) di creare le condizioni affinché le risorse umane (sopratutto donne e giovani) abbiamo una formazione di qualità e coerente con le esigenze della struttura produttiva del Paese. Oltre che garantire le tutele minime per l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani e donne (per esempio che lo stage sia retribuito, che i contratti atipici non siano abusi, che i giovani possano effettivamente ipotizzare un futuro e possano anche costruirlo).

Lo so, parlare di questi temi stando da questo lato della “barricata” è molto semplice, chi si trova a dover decidere e proporre soluzioni affronta una situazione davvero diversa e complessa, ma è importante ricordare che alla “quantità” (ridurre di 8 punti percentuale la disoccupazione giovanile) deve corrispondere anche la “qualità”. Altrimenti non c’è un vero sviluppo positivo, ma solo un incremento numerico-statistico che ignorerebbe le persone e i loro problemi.

 

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