Conversazione di Emilia Blanchetti con Sergio Rizzo, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, tratta dal volume Nimby Forum “L’Italia dei Nimby: una democrazia immatura”, che sarà presentato mercoledì 15 a Roma.
Partiamo dai dati del nostro Nimby Forum: lo scenario di quest’anno vede un ulteriore incremento del numero di opere, piccole e grandi, bloccate nel nostro Paese a causa delle opposizioni locali. Non parliamo naturalmente solo delle opposizioni dei comitati di protesta cittadina, di stampo ambientalista, ma di ostacoli che sempre più spesso derivano da conflitti di competenze sulle autorizzazioni, da distanze tra politica e territorio, da ricorsi e carte bollate che oggi tengono in scacco 354 opere, tra ponti, strade, centrali elettriche, rigassificatori, impianti eolici, termovalorizzatori, eccetera… I risultati delle elezioni politiche, e lo stallo che ne è derivato, come impatteranno secondo lei sullo sviluppo del Paese, e, in particolare, come vede la relazione tra il voto espresso verso un movimento con le caratteristiche dei grillini e la volontà del popolo italiano di risollevarsi e guardare al domani anche attraverso la necessaria sintesi tra infrastrutture e ambiente, tra protezione dell’ecosistema e progresso?
Il voto al Movimento 5 Stelle non è che il segnale di un disagio profondo, che ha ben poco a che vedere con le scelte sullo sviluppo e sulle infrastrutture. Il problema semmai sta nella pluralità di soggetti che hanno potere decisionale sulla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi. Un tema che arriva da lontano e che sarebbe sbagliato interpretare come risultato di questo particolare momento storico. Il tema sui cui interrogarci non è se le gente abbia votato Grillo perché pensa che la TAV non si debba fare, ma sul perché in Italia un chilometro di alta velocità costi 50 milioni di euro mentre in Francia, in Germania o in Giappone ne costa 9 o 10. Le faccio un esempio pratico tra i tanti di cui in questi anni sono venuto a conoscenza: per la realizzazione della Stazione Tiburtina di Roma è stata convocata una Conferenza dei Servizi con 38 diversi soggetti. Ciascuno di questi aveva lo scopo precipuo di ostacolare gli altri. Lo sa che per questo iter autorizzativo sono stati spesi 450.000 euro di fotocopie? E 22.000 euro per smaltirle? Questo è il problema, non i grillini contro la TAV.
Da quanto lontano arriva il problema? Quando ha iniziato questo Paese a non preoccuparsi più del futuro?
Da almeno quarant’anni il nostro sistema politico si è incardinato sull’economia con il solo scopo di far girare i soldi, senza mai avere una visione, un progetto, uno sguardo che andasse oltre il tornaconto immediato nello scambio di favori. L’Autostrada del Sole fu inaugurata nel 1964, fortemente voluta dai governi degli anni ’50 per accorciare le distanze nel Paese e consentire lo scambio commerciale tra luoghi che prima potevano essere raggiunti solo con due giorni di viaggio. Il progetto fu affidato a Fedele Cova, amministratore delegato di Autostrade. Le vorrei citare un breve passaggio di un’intervista rilasciata al Corriere all’inizio degli anni ’70. “Il segno del cambiamento si ebbe nel ’64. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perché non credevano nelle autostrade, forse perché non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma nel ’64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze… Pretendevano questo e quello, ed era difficile vivere. Fino al ’70, per me, è stata una difesa continua, strenua, da un interminabile assedio”. Negli ultimi anni il problema si è ingigantito e l’allargamento irragionevole delle competenze ha fatto sì che le opere pubbliche diventassero ostaggio delle comunità locali e degli interessi di parte.
Sì, ma se le opere non si fanno, i soldi non girano, l’economia si ferma. Quindi anche chi potrebbe trarne interessi legittimi alla fine resta a bocca asciutta…
Per le grandi imprese forse è più conveniente non fare le grandi opere o allungare enormemente i tempi. Questo consente di massimizzare i costi e far girare molto più denaro. Quando non addirittura di guadagnare sui risarcimenti per la mancata realizzazione. Nel 2007 vi sono stati arbitrati sulle grandi opere per 750 milioni di euro. Il costo previsto a suo tempo per la Roma Napoli era di 2800 miliardi di lire. Il costo finale è stato di 8 miliardi di euro. Le pare poco? Quanti soldi in più è stato possibile far girare tenendo bloccata l’opera per anni?
Per come la racconta lei, sembra che siano le imprese ad avere interesse a non realizzare le grandi opere…
In un sistema complesso le colpe non stanno mai da una parte sola. La domanda che ci dobbiamo fare è: chi esercita pressioni perché le cose non si facciano? E perché lo fa? Ma poi non è vero che in questo Paese è tutto bloccato. Si fanno le opere inutili. No ai termovalorizzatori, ma sì alle rotonde. A livello locale succedono cose incredibili. Si assiste alla realizzazione di opere assurde, veri e propri piccoli ecomostri, completamente inutili, ma che consentono alla politica locale di ottenere favori elettorali. Produciamo in continuazione opere minuscole e ridicole. Noi non siamo un Paese che ha un sistema per costruire il Ponte sullo Stretto. A prescindere dal fatto che sia utile o meno. Ma è un’opera che non ci possiamo permettere. Dal punto di vista culturale, sistemico, politico.
Il problema forse è che abbiamo un modello di sviluppo vecchio, che poggia su un sistema di relazioni borbonico, basato sullo scambio di favori all’interno di una cerchia che si autodetermina nella difesa degli interessi di casta e non lascia circolare il nuovo…
Non solo. Siamo anche il Paese con più leggi e con un tasso altissimo d’illegalità. Facciamo le regole per non rispettare le regole. Abbiamo uno dei sistemi di pianificazione urbana più complessi al mondo e anche uno dei tassi di abusivismo più elevati… Gli altri Paesi si attrezzano per avere un ruolo nella geopolitica e nell’economia globale, perché questo è il futuro. Noi no. Ma non possiamo essere la Corea del Nord. Non possiamo dire no alla globalizzazione…
Ma oltre questo pessimismo cosmico, lei quali prospettive vede? Da cosa dovremmo iniziare?
Dalla bellezza.
Dalla bellezza?
Certo, dalla bellezza. Questo è quello che possediamo. Questo è quello su cui puntare. Bellezza è arte, design, moda, enogastronomia, alta tecnologia. Bellezza è quindi agricoltura, paesaggio, bonifica, accesso, fruibilità, ricerca. E dunque è infrastrutturazione intelligente, gestione dei rifiuti, risanamento del territorio, tutela del paesaggio, energia a basso costo. Bellezza uguale moltiplicatore economico. Rilanciare l’Italia come perno della bellezza nel mondo significa avere autostrade, aeroporti, ferrovie. Infrastrutture che funzionano e che sono utili, non cattedrali nel deserto. Ma per arrivare a questo occorre disboscare la giungla delle competenze. Il presupposto non è la semplificazione, ma l’eliminazione. Il Consiglio di Stato va ripensato. Forse occorre un ministero unico per i beni culturali, l’agricoltura e l’ambiente.
Vallo a spiegare che per puntare sulla bellezza servono i termovalorizzatori…
Basta il buonsenso. Occorre guardare a punti teorici di arrivo, 100% di energia da fonti rinnovabili, 100% di riciclo dei rifiuti. Ma bisogna arrivarci per passaggi intermedi. Puntando a quelle soluzioni che progressivamente possono portare ai risultati attesi, ma che nel frattempo consentono di non far morire questa nazione. È meglio accettare i termovalorizzatori o morire perché le mozzarelle sono inquinate a causa del conferimento indiscriminato di rifiuti nelle discariche?
Il servizio televisivo pubblico prende le distanze da un discorso aperto sui termovalorizzatori “perché c’è un problema ideologico”, tentenna su un approfondimento su una centrale a carbone del futuro perché “qualcuno potrebbe protestare”: questo è. Ancora una volta, meglio non pestare i piedi a nessuno, meglio non fare informazione piuttosto che inimicarsi qualcuno che conta… Forse oltre che il buonsenso servirebbe il senso civico, il senso della cosa pubblica, il concetto di interesse comune.
Più che altro bisognerebbe eliminare il conflitto d’interessi. L’incertezza del diritto. Abbiamo una legge del 1957 che vieta espressamente che si possano eleggere persone che in proprio o attraverso imprese controllate risultino legate allo Stato per concessioni di “notevole entità”. Cecchi Gori nel ’96 fu eletto senatore in quanto si interpretò che la “notevole entità” non avesse a che vedere con i profitti derivanti dalle concessioni, ma dalla tassa pagata allo Stato per le stesse…
Perché le cose non sono mai cambiate?
Il perdurare della concomitanza d’interessi politici ed economici ha favorito questo stato di cose, impoverendo il tessuto industriale e produttivo a favore della speculazione edilizia e della finanza. Ma, ripeto, il problema non è solo nella classe politica, ma in tutta la classe dirigente: imprenditori, intellettuali, scienziati… Generazioni di persone inglobate dal sistema delle spartizioni. Sono sempre le stesse caste, le stesse imprese che lavorano, le stesse affiliazioni che gestiscono i poteri. E ancora oggi il Paese è condizionato dai frammenti di un mondo malato, che gli altri hanno rigettato. Ma ci rendiamo conto che siamo percepiti come uno dei Paesi più corrotti del pianeta?
Siamo senza speranza?
Forse no. Ma per invertire la rotta non servono né populismo pseudo ambientalista né ulteriore proliferazione di leggi e organismi di controllo. Servono senso pratico e fiducia, e la consapevolezza profonda del fallimento politico che abbiamo sotto gli occhi. Il coraggio di chiudersi la porta dietro le spalle.