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Mario “tasso zero”

La Banca centrale europea guidata da Mario Draghi ha abbassato il tasso di sconto allo 0,5 per cento dal precedente 0,75 per cento. Una decisione che era nell’aria già da qualche tempo, lasciata trasparire con sapienza per non cogliere di sorpresa i mercati. Di tutto hanno bisogno le economie dell’Eurozona, in effetti, tranne che di colpi di scena, nonostante larga parte della dottrina veda con favore anche le scosse che una mossa inattesa delle Banche centrali danno ai mercati finanziari e quindi poi (si spera) all’economia. Ma questo servirà veramente? I dubbi restano e sono molti.

Venticinque basis point non sono molti, soprattutto quando il tasso è già sotto l’1 per cento. Ma riavvicinano l’Eurozona alle altre aree economiche mondiali che hanno portato i tassi praticamente a zero e non paghi hanno iniziato a stampare moneta a ritmi impressionanti, com’è successo in Giappone e prima ancora negli Usa. Potremmo averne un beneficio nei tassi di cambio, ora troppo sfavorevoli per l’euro.

Le banche centrali “zero” – come soft drinks low sugar – hanno però, di fatto, azzerato il valore della politica monetaria nel controllo dei fondamentali dell’economia, portando i tassi a questi livelli. Le borse, e il movimento di quella giapponese è lì a dimostrarlo, festeggiano l’arrivo di tutta questa liquidità. La stessa Wall Street, sull’onda dei vari QE – Quantitative easing – è tornata sui massimi storici.

Il mondo si è quindi diviso in paesi dove la politica monetaria ha ancora leve utilizzabili, sostanzialmente quelli in grande ascesa mondiale come i Brics e i Next eleven – per usare una terminologia cara a Goldman Sachs e al suo Jim O’Neill che conió queste definizioni, e quelli che questa leva se la sono giocata, come le grandi aree occidentali. Il che apre due grandi questioni, due nodi fondamentali.

La prima: non è chiaro se questa new wave della politica monetaria servirà a rilanciare le economie reali di queste aree. E cioè se i tassi quasi a zero libereranno risorse monetarie adeguati a finanziare imprese, progetti, idee utili per accrescere la produzione di beni e servizi e quindi la richiesta di lavoro, il reddito dei cittadini e la loro capacità di spesa. In Giappone se lo augurano vivamente – innanzittutto il neo governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda – prima di gettare la spugna dopo un quindicennio di calma piatta e deflazione che toglie il fiato all’economia. Perché più soldi arrivino all’economia reale di questi paesi ci vogliono molte condizioni, la prima delle quali è che le banche aprano i rubinetti dei prestiti alle imprese. Se questo non succede, e finora non è successo, tutto resta solo una buona intenzione di Francoforte e nulla più. Come si usa dire in Economia si puó dare quanta acqua si vuole a un cavallo ma se questo si rifiuta di bere tutti gli sforzi rimarrano vani.

La seconda: squilibrare enormemente i tassi tra diverse aree del mondo permette ai grandi intermediari finanziari di avere un ottimo trade off tra prestare denaro nelle aree dove insistono le monete oggetto di taglio dei tassi, o fare carry trade. Ovvero prendere a prestito denaro dove costa poco per investirlo dove ha la possibilità di fruttare tanto, anche in investimenti a basso rischio come i bond governativi che in molti paesi emergenti hanno un buon rendimento, con il rischio però di generare afflussi massicci di capitali in questi Paesi ancora non maturi e con mercati piú ridotti e di generare pericolose bolle pronte a scoppiare e a provocare altri effetti collaterali assai dolorosi e problematici.

Affinché questo non succeda c’è bisogno di politiche fiscali importanti e di governi – in primis quello italiano che ci sta maggiormente a cuore – che riprendano in mano la politica economica e industriale nazionale, fornendo strumenti e soluzioni utili a convincere le banche che il denaro sempre meno caro debba essere utilizzato qui. Il futuro della nostra economia si decide a Palazzo Chigi, e negli altri palazzi del potere, prima che a Francoforte. (Twitter @alfredofaieta)

 

Lungomare Italia

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