La CGIL, in un recente incontro a Milano, si è interrogata sulla rappresentanza dei giovani precari, e in particolare sulle ragioni che impediscono un reale “appeal” del sindacato verso le giovani generazioni e i lavoratori con scarse tutele. Il tema è fondamentale e in gioco c’è il ruolo stesso del sindacato degli anni a venire.
Oggi, la rappresentanza del sindacato resiste in modo significativo in due categorie: il pubblico impiego e i pensionati. Queste sono le ultime due roccaforti oltre le quali c’è l’incognito. Un grande sindacalista del passato diceva che se il sindacato è sotto la soglia del 30 per cento della rappresentanza del lavoro in un settore produttivo, è condannato alla marginalità. Se si pensa al dato generale, i lavoratori attivi iscritti a Cgil, Cisl e Uil sono circa 6 milioni complessivamente, su un totale di lavoratori attivi in Italia di circa 22 milioni. Siamo già sotto l’asticella della marginalità.
Nei nuovi lavori la presenza sindacale è da percentuali imbarazzanti. Nelle professioni del digitale, che sono circa un milione, è inesistente, e nel variegato mondo del lavoro flessibile e dei giovani la musica non cambia. La crisi di rappresentanza del nuovo mercato del lavoro è conclamata. C’è un problema culturale dei giovani nei confronti del sindacato oppure è vero il contrario? Personalmente mi convince di più la seconda tesi: è evidente un limite culturale del sindacato verso il nuovo lavoro. Non lo capisce e preferisce rifugiarsi, quasi ritirarsi, nei lidi “conosciuti,” ma sempre più ristretti, del vecchio steccato.
La prima grande barriera che la Camusso e Co. non riescono a superare è quella del linguaggio. Se non si parla la stessa lingua è impossibile intendersi. Certamente continuare a chiamare e identificare i giovani lavoratori flessibili con l’aggettivo “precari” non aiuta. Anzi, probabilmente li allontana. Non si può ricondurre un’intera generazione nella categoria della precarietà, semplicemente perché questa non ci si riconosce. In passato si chiamavano operai e questa parola evocava qualcosa, un’identità, una comunità, un significato e il solo pronunciarla suscitava una identificazione. Oggi, per la rappresentanza del nuovo lavoro l’unica parola che i sindacati utilizzano meccanicamente è, precari. Una parola vuota che non parla a nessuno.
Un grande regista come Paolo Virzì nel bel film “Tutta la vita davanti”, che racconta, con lo stile agrodolce tipico della grande commedia all’italiana, le vicissitudini di alcuni giovani alle prese con un lavoro in un call center, ha colto bene la questione. La protagonista del film, Marta (interpretata da Isabella Ragonese) si avvicina al sindacato attratta soprattutto dalla personalità del sindacalista del Nidil Cgil Giorgio, impersonato da Valerio Mastrandrea. Ad un certo punto della storia, il giovane sindacalista la porta ad una rappresentazione teatrale ironica sulla condizione dei giovani precari, quindi anche su di lei. Alla fine dello spettacolo Giorgio presenta Marta ad alcuni colleghi e amici presenti allo spettacolo definendola “precaria”. Lei rimane disorientata di fronte tale definizione, non capisce, in quella parola lei non c’è, e comincia a stringere le mani alle persone che la salutano, in fila, come se fosse un marziano o un essere tanto rappresentato quanto sconosciuto e confusa risponde: “Piacere Marta, precaria”, per poi omettere il suo nome e dice solo “piacere, precaria”. Si è arresa alla manifesta impossibilità di essere accettata per quello che è realmente da parte dei suoi interlocutori, e con penosa accondiscendenza li ha “accontentati”. Tanto, a loro non interessa Marta, ma solo un’anonima e indefinita precaria che in fondo li rassicura .
E’ una scena che mette in straordinaria evidenza la dimensione grottesca e quasi surreale del tentativo goffo di gran parte del sindacato, di intellettuali o pseudo tali e di una certa classe dirigente del mondo del lavoro di rinchiudere ottusamente questi giovani nella categoria di “precariato”. Tu sei quello che noi diciamo tu sia e non quelle che senti di essere, questo più o meno il credo che li ispira.
Cari sindacati, se volete davvero rappresentare le giovani generazioni di lavoratori e professionisti e non sapete dove sono e da che parte cominciare, provate almeno ad andare al cinema.