Papa Francesco è un miracolo che deambula. Non per la sua semplicità – che rischia di farlo passare, se diamo fede (non sia mai!) a certi commentatori a digiuno di tutto, per una specie di Forrest Gump benedetto da Dio -, ma, al contrario, per la sua rigorosa e profonda inquietudine umana e pastorale. Non è un uomo tranquillo e, per questo, non è un clericale. Avrà, dunque, molto da patire per queste sue caratteristiche, ma l’ha già messo nel conto e ne ha già parlato in un paio di omelie mattutine al Santa Marta. Lui sa, e questo val bene una Messa.
Io sono un ratzingeriano di ferro e da lunga pezza, vale a dire da vent’anni a questa parte. Ci sono ratzingeriani di complemento, di risulta e perfino inconsapevoli; io faccio parte della schiera dei ratzingeriani militanti e me ne fotto dei distinguo, in genere. Ma confesso che non ho mai seguito un Papa come sto seguendo questo Papa. Un Papa che non mi corrisponde sul piano dell’approccio immediato, non mi ha procurato alcun effetto empatico e non me ne procura neanche oggi, a dire il vero. Eppure lo amo e lo trovo bellissimo nel suo essere così distonale da ciò che ho sempre cercato in un Papa. E’ fedele a se stesso, perché sa che, così facendo, è fedele al suo Signore e a me tanto basta per godere ad ogni sua uscita ed omelia. Ne fa tante e parla tanto, questo singolare Pontefice, ma ha quel certo temperamento destinato a segnare un metodo. Amen.
L’omelia di ieri, giorno del Corpus Domini, solennità meravigliosa e urticante, dunque superbamente cattolica, così invisa ed estranea a molti cattolici da salotto, i cagnolini del politicamente corretto che non vedono l’ora di intrigarsi con l’ultimo saggio di Mancuso, e, parimenti, così feticizzata dal nucleo degli ultimi giapponesi a combattere nella jungla, i cosiddetti “tradizionalisti” (cosiddetti, mi raccomando) che riducono il dinamismo della fede a cosa, res, la imbalsamano come il trofeo biologico di Lenin: non se ne esce. E allora ne esce questo Papa, senza trionfalismi e con molto rigore pastorale, mettendo al centro della sua meditazione due cose: a) lo spezzare il pane, l’urgenza del donarsi; b) il congedare con una paroletta, un “si scansi, per favore” chi ti viene incontro.
Alla fine, il tutto si raccorda con una paroletta magica, mantra di molti aficionados della teologia della liberazione e delle ong così massacrate – Deo gratias – da Papa Francesco: la solidarietà. Ma chissà perché, pronunciata da quest’uomo così uomo e così prete perché uomo, questa paroletta, ieri mantra d’accatto, mi è risuonata nell’anima come un combinato disposto dell’amore e un luogo per riprendere a respirare.
Chissà perché. La risposta alla domanda è personale e un gesuita che diventa Papa non solo non cessa di essere tale, ma si mostra ancor di più tale: ergo, l’io al centro di questo percorso.
Leggere l’omelia nei siti dedicati, please.
Raffaele Iannuzzi