Caro direttore,
una riunione del consiglio dei ministri, non un impedimento assoluto. E’ quanto hanno deciso i giudici della Corte Costituzionale, respingendo il ricorso presentato dai legali di Silvio Berlusconi per il mancato riconoscimento del legittimo impedimento del Cavaliere, presidente del Consiglio ai tempi dei fatti, a comparire in un’udienza del processo Mediaset.
In sintesi, la Consulta ha ricusato il conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal potere esecutivo nei confronti del Tribunale di Milano, stabilendo così la facoltà e la competenza dei giudici milanesi a determinare quali siano i criteri di definizione di “assoluto legittimo impedimento”.
Di conseguenza, il processo nell’ambito del quale l’ex premier e leader del Pdl è stato due volte condannato e interdetto dai pubblici uffici prosegue nel suo iter ed arriverà alla scadenza finale approdando in Cassazione nei prossimi mesi.
Sulle implicazioni politiche, ovvero sulle conseguenze che questo provvedimento comporterà sul governo delle larghe intese, voluto e sostenuto con dal Cavaliere, date le prime reazioni degli esponenti del suo partito, inclusi i ministri pidiellini, non c’è da essere sereni. Nonostante le rassicurazioni del principale interessato, il Berlusconi statista responsabile e consapevole delle oggettive difficoltà di Letta ad operare in spazi di manovra molto ristretti, che annuncia di voler separare le proprie vicende personali da quelle del Paese, credo che difficilmente sarà così e lo stesso Berlusconi, al di là delle ammirevoli dichiarazioni di circostanza, ne è ben consapevole. Vedremo cosa accadrà.
Dopo la prima impressione avuta, quella di un atteggiamento diciamo “pilatesco” della Consulta che di fatto passa la patata bollente alla Cassazione, non può non sorgere spontanea un’altra riflessione, quella riferita all’oggettivo bilanciamento dei poteri, l’esecutivo ed il giudiziario, nella nostra Repubblica.
Senza voler entrare nel merito della sostanziale essenza della Corte Costituzionale, ovvero se sia o meno un organo politico data la composizione e il metodo di elezione dei suoi componenti così come prevista dalla Costituzione, è indubbio che definire la partecipazione del capo dell’esecutivo a un consiglio dei ministri quale “impedimento non assoluto” ne svilisce il ruolo, relegando le scadenze e l’agenda di governo ad un ruolo subordinato rispetto ad una udienza di tribunale e, nel contempo, conferendo ai giudici il potere di stabilire quali siano i parametri che delimitano la definizione di “assoluto impedimento”.
Delle due l’una: o le riunioni del consiglio dei ministri, spesso indette con pochissimo preavviso, sono solo mere adunate conviviali dove si discute di fatti privati e delle ultime vacanze che nulla hanno a che vedere con decisioni che riguardano la vita dei cittadini italiani; oppure siamo in presenza di un cortocircuito pericoloso e perverso dove il sospetto è quello di una vera e propria persecuzione nei confronti di un leader politico, una strategia in atto che mira all’interdizione per via giudiziaria di un avversario dalla vita istituzionale.
E nella seconda eventualità: è più legittimato chi ricopre un ruolo per concorso o chi lo ottiene perché democraticamente eletto? E’ bene ricordare che circa un terzo degli italiani propende per questa seconda ipotesi.
Siamo di fronte a una situazione dove l’arbitrarietà di pochi sembra prevalere sul buonsenso utile a tutti: un Paese che vive da troppi anni in una straordinaria difficoltà, in un clima sterile di pro e contro, credo non possa oggi assolutamente permettersi di concentrare la discussione politica su di un uomo, sulla sua interdizione o, peggio ancora, sulla sua ineleggibilità dopo vent’anni di ripetuti successi elettorali.
Purtroppo temo accadrà: quell’uomo si chiama Silvio Berlusconi.