All’indomani del Salone aerospaziale di Le Bourget, il sistema difesa italiano si ritrova a fare il punto della situazione in vista dell’appuntamento del Consiglio Ue di dicembre che discuterà (per la prima volta dal 2008) dell’integrazione militare europea.
Dal punto di vista della pura potenza militare il divide europeo non è tra Nord e Sud, tra centro e periferia, ma tra ex-potenze vincitrici ed ex-potenze sconfitte. In altri termini, tra due grandi potenze militari ex-vincitrici dotate di arsenali nucleari nazionali e titolari di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu (Francia e Gran Bretagna) e due ex-potenze sconfitte (Germania e Italia) che hanno budget e soprattutto capacità di proiezione non paragonabili a quelle anglo-francesi.
E’ chiaro che Parigi e Londra hanno molto da perdere da un riavvicinamento strategico di questa profondità, che in prospettiva non può che includere anche una direzione europea dei loro deterrenti nucleari. E’ il tema della cosiddetta europeizzazione delle forze nucleari francesi e britanniche. Fino a qualche anno fa, poteva essere relegato in secondo piano. Ma oggi “la vecchia delega garantita dalla Nato non è più interpretata nello stesso modo dagli Stati Uniti”, secondo il viceministro degli esteri Marta Dassù, che sottolinea come Washington sia la prima sostenitrice di un rafforzamento militare europeo.
Se ne è discusso oggi al convegno “I costi della non-Europa della difesa” organizzato dallo Iai con la collaborazione del Centro studi sul federalismo e ospitato nel Centro alti studi della difesa di Roma.
L’Italia è da sempre interprete di una ricucitura tra i differenti interessi militari europei, fin da quando, con Alcide De Gasperi, fu tra le massime sostenitrici della Comunità Europea di Difesa (Ced) e negli ultimi anni sostenendo (praticamente inascoltata) la necessità di mettere in comune un seggio Ue al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Al convegno è emersa la volontà delle componenti politiche, economiche e militari della classe dirigente italiana di portare avanti questo sforzo, magari ipotizzando un “trade off” tra Germania e Francia, spingendo la prima a cedere il monopolio della politica economica e l’altra quello delle capacità militari. In effetti, solo l’Italia (e forse alcune medie potenze rilevanti come Spagna, Polonia e Svezia) può svolgere questo ruolo in vista del Consiglio Ue di dicembre, utilizzando l’appuntamento per costruire una road map che ci porti al secondo semestre 2014, quando Roma avrà la presidenza di turno dell’Unione.
Per il viceministro Marta Dassù esiste certo un “problema francese” sottolineato da diversi relatori (la gelosia e l’istinto sovranista della grandeur parigina), ma anche, e forse più rilevante, un “problema inglese”. Londra infatti “fa la differenza nel sistema della difesa” e va tenuta a tutti i costi agganciata al progetto politico-militare europeo, attraverso la costituzione di battlegroups e con fusioni industriali mirate (in un altro intervento il sottosegretario alla difesa Roberta Pinotti aveva sottolineato che i vertici politici italiani sono consapevoli che la fusione Eads-Bae Systems è congelata e che “non è detto che non riprenda il dialogo”. Dunque, bisogna che forze politiche e base industriale si parlino per sviluppare una comune posizione italiana rispetto ad una prospettiva di questo tipo).
Non c’è dubbio: senza la Gran Bretagna è difficile pensare ad una forza realisticamente comparabile con quella degli altri giganti militari continentali emersi (Stati Uniti e Russia) ed emergenti (Cina, India, Brasile). Ma questo, come sottolineano la stessa Dassù e il Ceo di Finmeccanica Alessandro Pansa, pone la necessità di inserire il capitolo militare all’interno dei tavoli per l’accordo di libero scambio transatlantici. E’ su questa dimensione di mercato nordatlantico che i gruppi europei e quelli americani (non più soddisfatti dal solo mercato interno) possono infatti trovare la forma competitiva ottimale da spendere sul mercato globale.