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Forza Italia? Allora destablishmentarizziamola

Caro Direttore, c’è voluta un’intera spasa (teglia) di tortino di alici per capire come rispondere all’interrogativo da lei lanciato dalle colonne di Formiche “Berlusconi punta su Forza o abbasso Italia?”.
Non è stato facile trovare una risposta che non fosse la solita litania, nelle due versioni, (pro e contro), rigorosamente irrigidita nel gessato luogo comune. Peraltro, avevo già impostato un articolo sui movimenti di protesta in Brasile e non pensavo, prima di ingollare l’ultimo morso di tortino, che dei due articoli potessi farne uno.

Alla fine del secolo scorso e precisamente il 20 Febbraio del 1890, a bordo del bastimento Città di Roma, un gruppo di socialisti italiani partivano alla volta del Brasile con l’intento di costruire una comunità che realizzasse, sotto forma di esperimento “galileiano”, i principi utopici del vivere socialista. La realizzazione pratica di una comunità che senza uno Stato di diritto, senza la polizia posta a loro difesa, trovasse un equilibrio in grado di garantire l’autorealizzazione di ogni individuo grazie all’instaurarsi del perfetto bilanciamento dei rapporti tra i vari membri della comunità, tra bisogni e risorse.
Mentre l’Occidente che si era lasciato alle spalle, e quindi a Oriente, s’inoltrava nella fase matura del capitalismo industriale, fordista, questo gruppo d’individui appartenenti a tutte le classi sociali, dall’operaio al professionista, (ricchi non ce ne dovevano essere però), credeva fermamente che la piena realizzazione del singolo non potesse, e non dovesse subordinarsi all’egoismo, alla violenza a un’imposizione di una sovrastruttura alcuna dall’alto. La piena realizzazione sarebbe stata una fiamma che trovava il combustibile nella libertà e il comburente nell’uguaglianza. Questa comunità, denominata “Cecilia”, durò 3 anni. L’esperienza fu giudicata dai promotori e da molti dei partecipanti un successo e la sua interruzione fu assimilata alla fine naturale di ogni esperimento, come Galileo che smise di guardare la lampada oscillare senza inficiare la scoperta del moto pendolare.
Inutile nascondere che vi furono alti e bassi durante la convivenza dentro Cecilia. L’equilibrio è una condizione suscettibile di frequenti assestamenti, dovuti al continuo modificarsi, nella fattispecie, dei rapporti di forza tra le famiglie. Al variare della numerosità dei membri, famiglie più numerose pretendevano maggiore voce in capitolo nelle decisioni che dovevano valere per tutti e questo creava tensioni non sempre risolte senza scontri. Inutile nascondere che l’esperienza comunitaria evidenziò come alcuni istinti dell’uomo mal si adattano all’attuazione pratica di utopie comunitarie. Ed evidenziò inoltre la profonda scollatura tra interesse pubblico e interesse privato.
Non esiste, infatti, un interesse generale che possa essere perseguito se non come il tracimare degli interessi particolari in uno stesso alveo. Così come non può esistere un coacervo di interessi particolari che convivono se non vi è sullo sfondo un interesse generale rispetto al quale rapportarsi.
Se oggi Ottone Von Guericke provasse a ripetere il suo esperimento per misurare le forze di coesione sociale anziché la pressione atmosferica, volendo trovare l’analogia tra la colonnina di mercurio che misura l’aria che vi galleggia sopra e la colonnina che ne misura lo stato febbrile, i due cocci finirebbero per terra senza bisogno che a tirarli in senso opposto siano chissà quanti cavalli. E questo perché l’establishment, in particolare nella vecchia Europa, ha tradito il patto che deve vigere nelle società capitalistiche tra interesse privato e interesse generale. La parola “patto”, certamente non piacerà ai liberali almeno tanto quanto loro poco piacciono alla stragrande maggioranza delle persone che non intraprendono.
Le proteste in Brasile, che rinfocolano in queste settimane anche e soprattutto per via della presenza dei media stranieri in occasione della manifestazione calcistica della Confederation Cup, non mostrano altro che il timore da parte di larghi strati della popolazione brasiliana, che sono maggioritari nel paese, che quel patto sia tradito a favore d’interessi che non hanno sede fisica in Brasile a scapito di chi vive in modeste condizioni nel paese.
Gli interessi in Brasile sono tanti e sono gestiti, in gran parte da società straniere. Questo perché il capitalismo ha bisogno d’infiniti spazi, costruendo, edificando, replicandosi nelle sue varie ramificazioni e rivoli ininterrottamente. Il salottiero refrain di cui tanti si riempiono la bocca citando Schumpeter viene smentito alla prova dei fatti. Se un privato ha da scegliere tra rompere e ricostruire e costruire soltanto, preferirà la prima opzione alla seconda a meno che la prima opzione non implichi che sia il pubblico a farsi carico di almeno una delle due attività.
La costruzione d’infrastrutture, di grandi stadi in paesi in via di sviluppo risponde a logiche economiche che sono elaborate da detentori d’interessi privati che risiedono altrove e che minano alle fondamenta sociali ed economiche la sovranità nazionale degli stati in cui orientano le proprie mire. Sebbene numerosi studi indichino come questi processi portino un aumento di posti di lavoro anche negli anni successivi all’evento, è anche vero che il paese che ha ospitato quell’evento si trova regolarmente a fronteggiare una situazione debitoria molto complicata. Nel paradosso di non avere, poi, manco gli spiccioli per far muovere i trenini delle nuovissime e modernissime metropolitane. O di non poterne assicurare la corretta manutenzione. Senza andare troppo lontano, basta analizzare quello che rimane di eventi internazionali in città italiane che li hanno ospitati per verificare la realtà dei fatti. L’aumento delle tariffe dei servizi di pubblico trasporto piuttosto che l’aumento di qualche percento dei conti correnti, a prima vista non connessi tra loro, possono essere in realtà lo stesso strumento per remunerare lautamente ma collettivamente gli investimenti privati di pochi.
Quello che il popolo, ammesso che nel sincretismo post ideologico esista ancora tale accezione, si aspetta da chi lo vuole governare in senso maggioritario consapevole di essere, tra tutti, il rappresentante che meglio ne interpreta le viscere è la destablishmentarizzazione della società. Il popolo vuole uno che, nel perseguire i propri, faccia gli interessi di tanti. Che si distingua da tutti gli altri che relegano l’interesse generale a una sbilenca diagonale di quel parallelogramma fatto dalle forze dei vari interessi particolari.
Sandro Bondi, nel 2009, ha pubblicato un libro “Il Sole in tasca” in cui accumuna la figura di Silvio Berlusconi a quella di Adriano Olivetti. Sperando di non rendere difficoltoso il transito al tortino, mi permetto di fare qualche riflessione. Adriano Olivetti costruì un impero industriale capace di generare nel territorio eporediese una concentrazione di energie e risorse tali da permettere alla comunità locale di migliorare enormemente la propria qualità della vita. Adriano Olivetti, con l’Olivetti, incorporò all’interno della sua società una serie di servizi che normalmente erano erogati dal pubblico. Olivetti era convinto che quell’allocazione di risorse fosse tale per cui le transazioni economiche che in questo modo scomparivano avrebbero portato più vantaggi all’Olivetti dei costi per sostenerla.
Silvio Berlusconi non ha mai attuato un programma comunitario assimilabile all’esperienza olivettiana. Olivetti impose un programma collettivo dall’alto. Berlusconi, malgrado sia stato capace di farsi interprete come nessun altro del fenotipo italico, non ha mai impresso una vera e propria rivoluzione sociale, economica e politica. Anche quanto aveva numeri e collaboratori sulla carta in grado di farlo, penso a figure come Martino, Urbani, Pagliarini che ricoprirono incarichi di governo nel suo primo esecutivo. Silvio Berlusconi aveva promesso la destablishmentarizzazione del paese ma non l’ha fatta.
Temo che Silvio Berlusconi interpreti così bene gli italiani che non può essere definito un liberale. Perché liberali non sono gli italiani. Temo che chiunque abbia voglia di riformare questo paese (Forza Italia) non abbia possibilità di farcela contro chi è per la conservazione d’interessi consolidati (abbasso Italia).
L’avanzata di Fiat nel pacchetto di controllo del gruppo RCS, all’indomani della morte di Rotelli, liberale, manco a farlo a posta, è il segnale semmai di un consolidamento dell’establishment nel paese, con tanto di gessato. Sociale ed economico.



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