Dopo aver dedicato molto tempo al quadro politico italiano, ho deciso di tornare ad occuparmi di un tema che mi è molto caro, anche perché in parte mi riguarda: la condizione giovanile. In questo intervento presento una “fotografia” della condizione dei giovani in Italia e poi quello che secondo me è un punto di partenza per intervenire sulla questione “giovani”.
Analizzando i dati dei tassi di disoccupazione, in serie storica, emerge un qualche cosa di inaspettato. Il tasso di disoccupazione “totale” italiano (ossia sia maschile che femminile, dai 15 ai 65 anni) si assesta tra i più bassi d’Europa, di poco superiore a quello francese. Spagna e Grecia si collocano invece, in posizioni decisamente più drammatiche (Grafico 1).
Se scomponiamo il dato complessivo per sesso e per età, emerge qualche cosa di più chiaro: essere donna o essere giovane, comporta un rischio maggiore di incorrere nello status di disoccupato. Questo valore era noto e non destava scalpore, perché si diceva che c’era una questione “culturale” alle spalle. Il dato era contenuto, più o meno in linea con gli altri Paesi almeno fino al 2008, poi le curve hanno iniziato a divergere, per esempio sulla disoccupazione femminile (Grafico 2).
Questo cambiamento è più evidente se si guarda ai giovani tra i 15 e i 24 anni, che sono quelli più colpiti. Nel 2008 il tasso di disoccupazione giovanile era attorno al 21% più o meno come in Svezia (20%) Francia (19%), Spagna (24%) e Grecia (22%). Mentre Francia e Svezia hanno contenuto il dato, arrivando a diminuirlo negli anni successivi; Grecia, Spagna e Italia hanno visto un progressivo e incessante crescendo. L’Italia, oggi, ha raggiunto il 40% di disoccupazione giovanile, mentre Grecia e Spagna hanno raggiunto il 55%. L’unico Paese che è riuscito dal 2008 ad oggi a fare diminuire i tassi di disoccupazione e contestualmente a fare aumentare l’occupazione, è la Germania (Tabella 1) mentre in Italia è accaduto l’esatto opposto (Grafico 4). Per rendere meglio l’idea ho creato una mappa (Fig.1) dal sito Eurostat sui tassi di disoccupazione giovanile con dati riferiti ad Aprile 2013.
Ciò che non dobbiamo tralasciare è la condizione di coloro che non hanno un’occupazione, non cercano lavoro e non studiano, sono gli inattivi totali, quelli disperati e disillusi (in letteratura economica e sociologica, si parla di NEET).
Questa fascia di popolazione (giovane) è in costante aumento ed è preoccupante perché viene erosa una parte consistente di “speranza”: un esercito “immobile” è stato definito su lavoce.info da Del Boca e Rosina, una risorsa non sfruttata e non valorizzata. In Germania, i giovani hanno accesso al lavoro già durante gli studi. I tirocini sono stipendiati, viene loro insegnato un mestiere, con teoria e pratica. Una partecipazione attiva dell’impresa nella formazione del giovane e con una compartecipazione dello Stato alle spese.
Nel nostro sistema il problema di fondo è rappresentato dall’assenza quasi totale di un legame tra “formazione” e “lavoro”. Oltre che da un disinteresse palese del Pubblico per le sorti dei giovani. Questo aspetto mi riporta ad un lavoro che ho realizzato durante la stesura della mia tesi magistrale, dedicata alla “responsabilità sociale delle imprese” e alle “buone pratiche”. Nei casi analizzati ho potuto osservare la creazione di un circolo virtuoso tra istituzioni pubbliche e private in una data area economico-produttiva. Questa collaborazione, che avevo definito “cooperazione allargata” aveva realizzato una rete di interventi socialmente ed economicamente rilevanti in ambito locale. Questo meccanismo (che in quel lavoro era descritto in modo più articolato e si riferiva ad altro tema) di interazione tra i settori pubblici e quelli privati, mi sembrò la via maestra per risolvere numerosi problemi di ordine economico e sociale. In Italia, questa collaborazione sembra essere residuale: imprese e istituzioni locali si guardano più con sospetto che con fiducia. Mentre altrove la “fiducia” si configura come collante fondamentale dello sviluppo, in Italia (fatti salvi alcuni esempi di eccellenza) questa fa fatica a costituirsi.
Prendiamo un esempio concreto inerente alla questione giovanile: lo strumento dello stage. Per questo tema ho da tempo maturato un interesse particolare. Lo stage è spesso uno strumento di abuso ai danni del giovane laureando/laureato piuttosto che un momento formativo e professionalizzante. Questo strumento, importantissimo, viene spesso usato dalle imprese come modo per avere manodopera senza costo e senza impegno: 6 mesi di lavoro non retribuito, magari 12 se c’è un rinnovo con un rimborso spese di 150 euro, se l’impresa è generosa, e poi un saluto cordiale e il ciclo riparte. Tra gli annunci online che si possono trovare, poi, lo stage viene proposto per ogni cosa: dal muratore al cassiere, dal magazziniere all’operatore ecologico. Chiari esempi di abuso di uno strumento, che invece è molto importante. Questo andrebbe rivisto profondamente e limitato solo ad attività di formazione e immissione nel mondo del lavoro, con una retribuzione minima fissata per legge. In Germania, per esempio, siamo attorno ai 400-600 euro, in generale anche se ci possono essere tirocini non retribuiti.
Assieme al ripensare lo strumento dello “stage” o “tirocinio”, andrebbe ripensato anche il sistema universitario oltre che quello delle scuole superiori. Quindi, andrebbe ripensato l’intero sistema educativo italiano. Ci sono lauree che non hanno alcuna aderenza concreta al mondo del lavoro e potrebbero essere senza problemi soppresse, perché non creano nuove professioni, ma nuovi disoccupati o inattivi (dato che poi le aspettative non trovano aderenza con la realtà). Un altro intervento urgente secondo me, è quello dei contenuti educativi.
Gli italiani abbiano un deficit formativo notevole in due ambiti specifici: la conoscenza delle lingue straniere e della matematica. Lo studio delle materie linguistiche andrebbe valorizzato fin dalle scuole primarie. Per esempio, lo studio dell’inglese (perché l’insegnamento dell’inglese, in Italia, è imbarazzante) e una seconda lingua, così da rendere semplice l’incontro con realtà economico-produttive straniere (non possiamo dimenticare che il mercato del lavoro, come quello produttivo, è globalizzato). Non solo, andrebbe incentivato lo studio della matematica e dell’informatica (materie fondamentali in una società complessa e informatizzata come la nostra).
Per poter rendere i giovani più competitivi e spendibili sul mercato del lavoro globalizzato occorre ripensare i contenuti educativi e spingere per una maggiore compartecipazione delle imprese alla formazione dei giovani laureati e diplomati (in base alla mansione e competenze richieste). L’investimento fondamentale di una società responsabile non può che essere sul proprio futuro, ossia sui giovani e su una maggiore specializzazione educativa e professionale. Tale intervento non può essere pensato senza una cooperazione effettiva tra istituzioni pubbliche e imprese, tra sistema economico-produttivo ed educativo (aderenza tra ciò che si studia e ciò che esiste nel lavoro), tra sistema finanziario (le banche) e le istituzioni pubbliche (comuni, regioni, ministeri).
Per essere più chiaro, concludo con un esempio concreto.
Con la legge regionale n.28/2011, la Regione Toscana ha istituito un progetto chiamato “Giovani Sì” destinato ai tutti coloro che non hanno superato il quarantesimo anno di età e che vogliono aprire un’attività imprenditoriale in Toscana. Il progetto prevede che la Regione si faccia garante per questi giovani per l’ottenimento di un prestito da 5000 a 250.000 euro, con un finanziamento massimo di 15 anni. La Regione concede anche un contributo per la riduzione del tasso di interesse su questi finanziamenti pari al 70% dell’importo degli interessi gravanti sul finanziamento. Per alcune imprese si propone di acquistare partecipazioni di minoranza nel capitale della società per un importo massimo di 100.000 euro. Per questi progetti la Regione Toscana ha fissato un limite che è il 30 aprile 2015.
Tutto a parole è più facile, ma giocare da solisti non può essere la soluzione a nessun problema. Credo fermamente che una cooperazione “allargata” a tutti i livelli della società sia la soluzione plausibile per uscire da questa immobilità politica, economica e sociale.