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Il lamento della Banshee che risuona in Irlanda

Sembrava finita, ma in realtà non finisce mai. L’agonia dell’Irlanda, il primo dei Piigs (ora Gipsi) a soffrire i duri colpi della crisi viene contrabbandata per un risanamento in corso, quando invece sono tali e tante le criticità che ancora affliggono il piccolo paese del Nord che il Fondo monetario internazionale non può che concludere, nello staff report pubblicato di recente, che “nonostante gli sviluppi positivi economici e finanziari del mercato, le sfide sui bilanci continuano a presentare rischi per la ripresa della crescita e per la sostenibilità del debito”.

Quali siano questi sviluppi positivi è presto detto. Nel marzo scorso l’Irlada è riuscita a riavvicinarsi timidamente ai mercati finanziari, dai quali era stata bandita dopo lo scoppio della crisi, piazzando qualche miliardo di bond pubblici grazie alla confortante assistenza delle istituzioni internazionali. Poi c’è stato un recupero robusto del saldo di conto corrente, che però come vedremo dopo, è molto meno positivo di quello che sembra. Infine, è in atto una correzione del bilancio pubblico che si prevede riporterà il paese in avanzo primario l’anno prossimo.

A che prezzo? Il solito. La disoccupazione è cresciuta esponenzialmente, dal 5% del 2006 al 15% del 2012, di cui la gran parte viene considerta di lungo termine, e solo nel primo trimestre 2013 c’è stato un lieve calo al 13,7%.

A fronte di questo mercato, il Paese ha visto crollare il costo orario del lavoro, retrocesso al livello del 2007. Fatto 100 il costo orario del 2005, ora l’indice quota 105, assai al di sotto della media dell’eurozona, che supera i 115. Disoccupazione e deflazione salariale hanno fatto schizzare in alto la produttività, ben al di sopra stavolta di quella dell’eurozona. Fatto 100 l’indice nel 2005, per l’Irlanda l’indice della produttività reale del lavoro è arrivato a fine 2012 a 115, dopo un picco di 120 nel 2011. Nell’eurozona invece l’indice è fermo intorno a 105.

Ciò malgrado (calo del costo del lavoro e aumento della produttività), scrive il Fondo “il miglioramento della competitività non ha portato a miglioramenti delle quote di mercato”.

Crolla così, miseramente, uno dei dogmi che ancora oggi guida il dibattito sulla crisi: ossia che l’aumento della competitività migliori le esportazioni tout court.

Poi c’è il prezzo pagato dalle famiglie, che si sono riempite di debiti pompati dal credito facile ai tempi della bolla immobiliare. Il Fmi registra come un successo il fatto che gli irlandesi abbiano risparmiato il 12,5% del loro reddito disponibile nel 2012, che contribuisce “a ridurre i loro debiti lordi ancora troppo alti al 202% del loro reddito disponibile”.

Per la cronaca, tale percentuale è praticamente raddoppiata dal 2003.

Tutto ciò mentre il mercato immobiliare, nel primo trimestre 2013, è tornato a calare (-2,6%) portando ad oltre il 50% il calo dei corsi immobiliari da inizio crisi.

La deflazione immobiliare ha avuto un altro simpatico effetto: ha fatto schizzare verso l’alto i rendimenti del mattone. Chi è riuscito a conservare proprietà immobiliari, o le ha comprate dopo lo sboom, può lucrare su rendimenti sugli affitti assai più accattivanti di cinque anni fa, addirittura oltre il 6%. Ma quanti saranno questi fortunati?

A livello macroeconomico l’Irlanda sta meglio di prima, ma non si può certo dire che stia bene. La sostenibilità del debito pubblico, da un parte, e del debito estero, dall’altra, è fortemente condizionata, com’è logico che sia, dall’andamento dell’economia. Il tutto di fronte a un sistema bancario ancora imbottito di debiti che rendono molto difficoltoso per le banche fare quello che dovrebbero fare: prestare i soldi per far girare il Pil.

Il debito pubblico, nella scenario base, dovrebbe declinare dal picco del 120% del Pil raggiunto nel 2012, al 110% entro il 2018. Ma se l’economia dovesse ristagnare, c’è il rischio concreto che schizzi verso il 130%.

Un livello che sembra persino sopportabile rispetto a quello ragiunto dal debito estero irlandese, che a fine 2012 ammontava al 287% del Pil, senza consideare quello con i centri finanziari internazionali, persino migliorato rispetto al 322% raggiunto a fine 2011, ma tale diminuizione è dovuta all’abbattimento dei debiti della banca centrale sui saldi Target 2.

Al contrario l’indebitamento estero del settore pubblico è in crescita, visto che il governo deve eattingere ai programmi Ue-Fmi per garantirsi ossigeno finanziario.

Le previsioni stimano che il debito estero irlandese arriverà al 200% del Pil entro il 2018. Forse. Perché se invece la crescita si manterrà secondo la media degli ultimi anni, il debito arriverà al 286% nel 2018. Al livello di oggi.

E’ come svuotare il mare col secchiello.

Se poi a questa montagna di debito aggiungiamo anche quello con i centri finanziari internazionali (International financial services centre, IFSC), il debito estero a fine 2012 arriva a  record del 1002% del Pil. Ciò significa che la Niip, ossia la posizione netta degli investimenti, è addirittura peggiorata da un deficit pari al 5% del Pil nel 2006 a livello record del 96% a fine 2012. E chiunque abbia un minimo di conoscenza della crisi, sa bene quanto sia pericoloso un debito estero così elevato.

Il dato interessante è che a fronte un peggioramento così drastico della Niip, abbiamo un miglioramento del saldo di conto corrente, arrivato a un surplus del 4,9% del Pil a fine 2012. Merito dell’andamento crescente dell’esportazione di servizi (quella di beni è declinante), ma soprattutto del fatto che gli afflussi netti sul conto finanziario (segno più, quindi debito) non producono deflussi sul lato dei redditi del conto corrente (segno meno, uscita).

Come mai?

E qui veniamo alla particolarità che sta tendendo a galla il conto corrente irlandese. Nel 2008 alcuni cambiamenti fiscali decisi dal Regno Unito hanno reso conveniente “domiciliare” le imprese in Irlanda per fruire di corposi sconti fiscali. Un’operazione molto diversa dalla tassazione favorevole alle multinazionali che per anni ha nutrito l’Irlanda.

La “ridomiciliazione”, infatti, ha spinto le aziende a mettere solo il domicilio fiscale in Irlanda per fruire degli sconti fiscali. Le vecchie multinazionali invece producevano e investivano in Irlanda, quindi sul territorio,con tutti gli effetti macroeconomici del caso (lavoro, export, tasse eccetera). Con la ridomiciliazione, le aziende estere che hanno il domicilio fiscale in Irlanda vengono considerate dalla contabilità nazionale come imprese irlandesi a tutti gli effetti, quindi i loro profitti vengono considerato flussi di reddito interni, che di fatto fanno salire il Pil e il conto corrente. Eventuali deflussi emergono in chiaro sul conto corrente solo quando i proprietari delle aziende (che sono esteri) decidono di richiamarli in patria. Mentre i profitti non distribuiti (e quindi non espatriati) fanno parte della ricchezza nazionale.

Il tecnicismo diventa interessante se si prova a vedere quanto pesi questo espediente della ridomiciliazioni sui conti nazionali. Uno studio mostra che i profitti non distribuiti hanno contribuito al 4,3% del Pil nel 2012 (era l’1,1% nel 2009). Senza questo “trucchetto”, insomma  il Pil sarebbe molto più basso, con buona pace per la sostenibilità dei debiti irlandesi.

Se poi vediamo il conto corrente, se i veri proprietari avessero fatto defluire sul lato dei redditi i loro profitti, il saldo del conto corrente avrebbe avuto un surplus di appena lo 0,8% del Pil, a fronte del 4,9% ottenuto a fine 2012.

Qual  è la morale di questa storia? Che l’Irlanda sta continuando a vivere molto pericolosamente.

Sei anni di crisi sono serviti solo a restituire all’Irlanda una pallida credibilità internazionale, che dovrebbe consentirle, prima o poi, di tornare a indebitarsi sui mercati ufficiali. Ma le sue fragilità (e stendiamo un velo pietoso su quelle bancarie) sono ancora tutte lì, a indicare un paese che vive sul ciglio di un burrone e cerca disperatamente di sopravvivere.

Non è certo l’unico.

Ma in Irlanda risuona forte e chiaro il lamento della banshee.



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