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Il Riformismo che serve

 Per andare dentro il senso delle parole, in una società come la nostra, dove le stesse scorrono ad una velocità cibernetica, bisogna ricorrere a poche ma comprensibili metafore.

E’ così dunque che si intende analizzare il senso profondo della parola “Riformismo”.

Il Riformista (vero) è come un sarto che deve ristrutturare un abito già confezionato e indossato; modificandolo alla radice, dalla forma se vuole davvero renderlo più adeguato ai tempi, più calzante ai bisogni di un corpo mutato dal tempo o peggio dall’inerzia.

Solo con un effettivo cambiamento, ordinato e radicale nella forma, si potrebbe effettivamente rivitalizzare un sistema, e le sue molteplici articolazioni, per una “rivoluzione” strutturale che consenta ad uno Stato, degno di tale nome, di assicurare un necessario equilibrio sociale.

Condizioni minime per garantire, in primo luogo, le prestazioni essenziali per il benessere dei cittadini, in totale adesione al dettato costituzionale e, nel buon senso generale, nelle scelte delle politiche pubbliche.

Paolo Pombeni, Direttore del Centro Studi Progetto Europeo e professore ordinario di Storia dei sistemi politici europei presso l’ Università di Bologna, è intervenuto con puntualità sul tema con esempi chiarissimi e sostanziali apportando un fondamentale contributo al dibattito avviato su questa Rivista:

Si fa presto a parlare di riforme e di riformismo: ormai è diventato quasi un ritornello universale. Questo perché si è perso il senso profondo del termine che non significa semplicemente mutare qualcosa in un certo istituto, ma dargli nuova “forma”, il che implica un suo ripensamento radicale.

Credo che in questo momento storico di grande transizione sia quanto mai opportuno tornare alle radici di questo concetto. Ciò di cui ha bisogno la politica attuale non è un aggiustamento degli istituti su cui si basa, ma di un loro strutturale ripensamento. Non si tratta di fare rivoluzioni, che implicherebbero, ad essere rigorosi, un discostarsi radicale dai sistemi che abbiamo costruito dopo le rivoluzioni costituzionali iniziate fra fine Settecento e metà Ottocento. Non vedo ragioni perché si possa dichiarare la fine di quei sistemi e soprattutto non vedo all’orizzonte credibili proposte di loro sostituzione integrale. Quelle proposte che abbiamo avuto in passato, citiamo per tutte il fascismo e il comunismo, hanno dato pessima prova di sé.

Tuttavia mi sembra evidente che per molti concetti che abbiamo posto alla base dei nostri sistemi costituzionali si rende necessaria una rimodulazione, cioè esattamente un serio cambiamento di forma.

Prendiamo, per spiegarci, il caso del nostro sistema di welfare e di tutele sociali. In quest’epoca è ancora fondamentale la gratuità per tutti del maggior numero di servizi possibili al prezzo di un loro sostanziale degrado, o non sarebbe meglio graduare gli interventi e incrementare la compartecipazione alle spese in modo da avere servizi migliori? Se però ci poniamo in quest’ottica ha senso ancora porre il costo complessivo dei servizi come un qualcosa determinato dai gestori stessi di quei servizi imputandolo alla fiscalità generale?

Detto in parole semplici: per garantire una copertura sanitaria efficace alle fasce più deboli della popolazione è giusto chiedere il contributo delle fasce più abbienti, però nel momento in cui si chiederà alle fasce più abbienti di compartecipare direttamente alle spese sanitarie, bisognerà rivedere il peso fiscale che sino ad oggi si è imposto al singolo nel presupposto che fosse la fiscalità generale a sostenere l’onere completo delle spese sanitarie.

Solo da questo piccolo esempio si può capire quanto una riforma che tenga conto di questi nuovi parametri risulterebbe in una ristrutturazione del nostro sistema di welfare nel campo della sanità.

Facciamo un altro esempio notissimo: la tutela del diritto al posto di lavoro. Sino ad oggi essa è concepita come tutela al massimo possibile del posto che uno si trova a ricoprire. Quelli che non hanno posto di lavoro non hanno di fatto alcuna tutela. La proposta è invece di spostare l’azione ad una salvaguardia della possibilità di continuare ad avere comunque un posto di lavoro anche se non sarà sempre lo stesso. Come tutti sappiamo questa proposta trova fortissime resistenze e di fatto non riesce a passare.

Chiediamoci allora che cosa ostacola veramente un orizzonte riformista, per illustrare il quale mi sono affidato a due esempi banali. La risposta è assai facile: perché ben pochi si fidano della possibilità che l’abbandono delle vecchie forme e il passaggio a forme nuove possa realizzare davvero un miglioramento. Anche la gran parte di coloro che vedono chiaramente la debolezza delle vecchie forme, pensano che chi si propone di riformarle voglia semplicemente abolirle (o finisca per farlo inconsciamente) senza avere la capacità di mantenere in vita certi contenuti sia pure in forma rinnovata.

Dunque la questione della riforma è ancorata ad un punto di partenza “culturale” che in genere oggi ci rifiutiamo di prendere in considerazione. Storicamente la Riforma con la “R” maiuscola è quella che si affermò fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, che ebbe le sue versioni nella rivoluzione di Lutero da un versante e nel Concilio di Trento dall’altro. In quel passaggio storico il problema era il ritorno della cristianità al suo spirito originario e puro attraverso una conversione interiore profonda. Solo nell’Ottocento e in ambito socialista il termine “riforma” venne in un certo senso svalutato ponendolo semplicemente in alternativa al termine “rivoluzione”, quasi che la riforma fosse semplicemente un miglioramento di qualcosa di esistente che si accontentava di non poter essere radicale (cioè rivoluzionario) semplicemente perché ciò non era possibile (benché rimanesse in astratto auspicabile come scelta migliore).

Oggi qualsiasi serio discorso riformatore deve invece ritrovare la forza originaria, perché altrimenti non riuscirà a raggiungere il suo obiettivo. La riforma è un percorso difficile che richiede coraggio e soprattutto capacità creative. Esso parte da una analisi rigorosa del rapporto mezzi-fine su cui sono fondati certi istituti politici e sociali, implica robuste conoscenze storiche dei percorsi di formazione e di fondazione responsabile della legittimazione di quei fini, postula la capacità di penetrare certe ragioni storiche e sociali al punto tale da poterle riformulare senza perderne i contenuti profondi.

Il riformismo non è impresa da pavidi. Lo sono molto di più l’utopismo e il populismo che o fuggono alle responsabilità nella proposta di palingenesi impossibili o se la cavano attribuendo ogni mal funzionamento del sistema non alla sua obsolescenza ma alle colpe di un qualche “diavolo” che solo loro sono stati capaci di individuare.


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