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Il Riformismo: diffidare dalle imitazioni. Una lucida analisi dell’economista Paolo Leon

Prosegue il dibattito intorno al tema del riformismo e questa volta a proseguirlo è Paolo Leon autorevole economista e professore emerito Università Roma Tre, che ringrazio per aver accettato il mio invito e per la chiarezza e la sistematicità della sua esposizione.

Dall’analisi di Leon traspare, con amarezza, una “diffidenza” del “nuovo” utilizzo del termine che si è nel corso degli anni “adattato” perdendone la necessaria originarietà.

Sul punto, viene in mente quella “solitudine del riformista” che Federico Caffè aveva trasformato in una sorta di manifesto per tutte quelle anime che, con rabbia e passione, hanno condotto una personale battaglia per l’affermazione dei principali valori e di un “concretismo” ormai sparpagliato in tanti ragionamenti privi di fondamento.

E’ chiaro che, in tempi in cui vi è urgente bisogno di “risposte”, non basta più parlare di riforme se chi ne parla non è consapevole nemmeno della direzione da prendere.

E’ facile osservare – afferma Paolo Leon – come il termine “riformismo” sia usato da chiunque, a destra o a sinistra dello schieramento politico. Come spesso accade, il nome copre qualcosa che non si è in grado di esprimere, o che si teme di esprimere, o che può mutare a seconda delle circostanze. Si tratta, quasi sempre, di una fuga dalla responsabilità di dichiarare cosa effettivamente si vuol fare. Il riformista, così, è attento a descrivere cosa cambierebbe in ciò che esiste, e la genericità del termine gli fornisce ampia libertà di muoversi da posizioni moderate fino a posizioni ultraconservatrici.

Storicamente, il riformismo è una forma politica italiana della sinistra moderata, sorta all’epoca della rivoluzione russa, quando tra i socialisti si distinsero le posizioni dei rivoluzionari, ispirati da Lenin, da quelle dei gradualisti, tra i quali spiccavano Turati e Treves. Per verità, il gradualismo era più vecchio, e costituiva il pensiero della socialdemocrazia tedesca alla fine del XIX secolo, quando quel partito si liberava dal rivoluzionarismo di Marx e partecipava pienamente al sistema parlamentare (anche se guglielmino: mai dimenticare che la socialdemocrazia votò i crediti di guerra al Kaiser). L’elaborazione riformista è forte in Austria, e Otto Bauer ne fu forse il principale interprete. Tutto finì con la prima guerra mondiale, la sconfitta tedesca, la rivoluzione russa. In Italia, dove pure il partito socialista non era stato interventista, fu rapidamente superato dal nuovo, e più rivoluzionario, partito comunista, e da lì partono le divisioni socialiste già ricordate.

Il PCI, dopo la seconda guerra mondiale, non è mai stato dichiaratamente riformista; nella realtà, si è sempre comportato come un partito socialdemocratico e ha sempre fuso due anime diverse: quella “migliorista”, con forte ispirazione liberale (bilancio in pareggio, economia mista, apertura ai mercati mondiali), e quella “riformatrice”, a ispirazione marxista (sindacalismo, intervento pubblico, lavoro). Nessuna delle due anime, però, si dichiarava riformista. Dopo la caduta del Muro, le diverse sigle dell’ex-PCI hanno mantenuto un legame con la tradizione socialdemocratica, ma l’hanno quasi sempre interpretata nella forma “migliorista”, che qualcuno definirebbe liberalsocialista, e perciò, riformista. Dopo la formazione del Partito Democratico, la composizione mista tra ex-comunisti e cattolici (quasi si trattasse di due religioni…) cambia l’ispirazione, che diventa liberaldemocratica, con adesione, spesso supina, al pensiero dei partiti centristi europei e alle regole liberiste e conservatrici dell’Unione Europea. In quest’ultima mutazione, il riformismo è accettato universalmente come una vera e propria “dottrina” e, poiché deve distinguere il Partito Democratico dalle sue precedenti versioni socialdemocratiche, il riformismo è diventato un programma politico di “modernizzazione”: accettazione delle regole del mercato, minimizzazione dell’intervento pubblico, welfare come equità per i più poveri, indifferenza per i corpi intermedi (come il sindacato), accentuazione dei poteri del governo rispetto a quelli del Parlamento, e in genere delle assemblee.

Dopo la crisi del 2008, anche il riformismo di sinistra ha perso lustro, soprattutto perché le politiche di austerità – tutte elementi del “riformismo” – si sono rivelate dannose, dato che togliendo ai governi la possibilità di finanziare nuovi programmi indebolivano il potere politico. Così, il riformismo muta in una nuova e più forte “modernizzazione”, dove il peso della politica si alleggerisce, e nelle difficoltà che ne derivano, cresce più la tentazione della repressione che quella della giustizia sociale.

In questo quadro, il riformismo italiano diventa termine generico, utilizzabile anche a destra. Nello schieramento di destra, è difficile riconoscere il riformismo di Turati e Treves, e ciò di cui si parla è, in realtà, una trasformazione istituzionale radicale, con gli istituti fondamentali della Costituzione del 1948 che sono posti in discussione. Non ci si ispira alla Carta di Verona della Repubblica Sociale, e si accetta la deriva conservatrice europea, ma l’idea di nazione resta il fondamento ideologico più profondo. Qui, l’autoritarismo è prevalente. La divisione dei poteri non è accettata: la giurisdizione è assegnata al potere esecutivo, esecutivo e legislativo sono unificati dal presidenzialismo e dal sistema maggioritario, i corpi intermedi sono considerati inutili.

Si noterà come alcuni degli elementi del riformismo di destra – in tema costituzionale – non sono troppo distanti da quelli del riformismo della sinistra. Per questo occorre diffidare del nome.

Se, come osserva acutamente il Prof. Leon “cresce più la tentazione della repressione che quella della giustizia sociale” occorre maggiormente diffidare per l’uso distorto del termine. La genericità dello stesso non è rispettoso anzitutto nei confronti di coloro che si sono spesi per dare a questo Paese un altro aspetto e un altro corso.

E allora tutto oggi, senza “Programmazione”, diventa oggetto di voli pindarici che dimenticano appunto l’azione di coloro che hanno combattuto- con i fatti, con le idee e con il metodo – per un reale cambiamento strutturale e con esso della visione di uno Stato, oggi più che mai “supino” ai venti dell’Europa al momento ridotta vecchia bussola senza capacità di indicare la giusta meta, persa nel fumo grigio della contagiosa austerità.

Quello che è certo è la solitudine dei veri riformisti.

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