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Ilva, acciaio, Europa. Urge Industrial Compact

Per comprendere il ruolo strategico dell’Ilva di Taranto si deve partire dal ricordare che abbiamo a che fare con il più grande stabilimento produttivo europeo a ciclo integrale, con una capacità di 11,5 milioni di tonnellate d’acciaio grezzo, pari a oltre l’8% della capacità produttiva complessivamente installata nell’Unione Europea. Ipotizzando un tasso di utilizzo della capacità pari all’85%, che è giudicato dagli esperti come il valore che consente di realizzare il minimo dei costi medi per impianti di questo tipo, l’Ilva sarebbe in grado di realizzare un terzo dell’acciaio grezzo prodotto nel nostro Paese nel 2007 e quasi il 90% della produzione nazionale a ciclo integrato registrata nello stesso anno.

L’impatto sull’industria italiana

Privarsi dell’Ilva equivale quindi a rinunciare alla produzione di acciaio primario in Italia, con effetti negativi incalcolabili sulle nostre industrie che utilizzano acciaio per realizzare prodotti finiti, in primis il settore dell’auto che conta in particolare su laminati di prima qualità, come pure quello degli elettrodomestici, ma anche quello delle costruzioni e quello dell’ingegneria meccanica. La chiusura dell’Ilva avrebbe impatti non trascurabili anche sulla produzione d’acciaio secondario, segmento in cui l’Italia è leader europeo, che necessita di ghisa da altoforno e di rottame di prima qualità per migliorare le qualità metallurgiche dei propri prodotti finiti.

I provvedimenti e gli investimenti necessari

Non v’è dubbio che, se si intende proseguire l’attività produttiva, si dovrà far fronte tempestivamente alla sciagurata gestione dell’impatto ambientale dello stabilimento con investimenti mirati, in modo da assicurare il rispetto delle normative nazionali ed europee e la conseguente tutela della salute dei cittadini. Questi interventi, tuttavia, necessari e imprescindibili, non sufficienti a garantire un futuro all’Ilva, il cui destino è legato a doppio filo al futuro dell’acciaio in Europa.

Le risposte europee

Nonostante lo stabilimento di Taranto, sia sufficientemente efficiente da un punto di vista tecnico, avendo il vantaggio di poter beneficiare di economie di scala uniche a livello europeo, la soluzione alla crisi dell’Ilva richiede che l’Italia pretenda che l’Unione Europea prenda atto delle motivazioni alla base della crisi dell’industria europea dell’acciaio e che si agisca coerentemente, nell’interesse di tutti gli Stati membri, Italia compresa, attraverso un set di policy in grado di definire un percorso strategico per rilanciare il settore.

Le ragioni del declino dell’acciaio europeo

Dopo il picco di produzione realizzato nel 2007, l’industria dell’acciaio in Europa ha fatto segnare una lieve contrazione nel 2008, seguita da un crollo verticale nel 2009, per attestarsi nel 2012 su valori complessivi paragonabili a quelli registrati 10 anni prima. Le ragioni del crollo vanno rintracciate nell’analisi della filiera di cui le acciaierie sono parte. I produttori europei d’acciaio sono schiacciati tra una domanda che continua a contrarsi – il settore dell’auto, degli elettrodomestici e quello dell’edilizia sono ancora in profonda crisi – e un’offerta di materie prime fortemente concentrata che gode di un rilevante potere di mercato. A tal proposito, basti pensare che le esportazioni di minerale di ferro – il principale costo variabile per le acciaierie integrate – sono dominate a livello globale da sole tre imprese, che sono riuscite a decuplicare i propri prezzi nel periodo 2002-2010. A ciò si aggiunge una situazione generale di sovra-capacità produttiva, non tanto a livello europeo – soprattutto se si considerano i livelli di produzione pre-crisi che consentivano un tasso di utilizzo della capacità produttiva attorno al 90% – quanto sul piano globale – con la Cina che ha installato, negli ultimi dieci anni, in media circa 60 milioni di capacità produttiva all’anno e nel 2013 sfiorerà il milione di tonnellate, pari a circa i due terzi della domanda mondiale.

Il rischio di deindustrializzazione nell’Ue

Alla luce di tale analisi, è evidente che, se da un lato i prezzi di mercato dell’acciaio sono in calo, dall’altro i costi produttivi per tonnellata di prodotto sono in forte aumento in Europa sia a causa delle inefficienze derivanti da un utilizzo sub-ottimale della capacità installata sia del peso sempre maggiore assunto dai costi variabili. Il risultato è una forte contrazione dei margini. In un contesto di questo tipo, in un’economia che si affida completamente a meccanismi di mercato di breve termine, si attivano processi di selezione per cui le imprese con costi produttivi più elevati escono progressivamente dal mercato. L’esito di un tale processo, se si escludono le imprese che producono acciai speciali ad alto valore aggiunto – la cui domanda rappresenta tuttavia una fetta molto limitata del consumo complessivo – potrebbe spostare gran parte della produzione nei Paesi in cui i costi produttivi sono più contenuti, vuoi per una maggiore disponibilità di materie prime a buon mercato (Brasile, Russia, USA), vuoi per il supporto che i governi locali forniscono a un settore ritenuto di importanza strategica per la crescita economica (Cina). Qualsiasi scelta fatta a livello europeo deve partire da questa consapevolezza.

L’Industrial Compact

Qualora l’Unione Europea intenda seguire, senza compromessi, la via del libero mercato, dovrà essere pronta a farsi carico degli esiti di tale scelta, accettando scenari futuri in cui l’Europa diventerà un importatore netto di acciaio, assumendo il rischio di subire il potere di mercato dell’offerta estera e comunque, nella migliore delle ipotesi, facendosi carico dei rilevantissimi costi di trasporto, oppure in cui con la produzione di acciaio anche quei settori a valle che richiedono una più stretta integrazione con gli stabilimenti produttivi, l’automobile su tutti, lasceranno il Vecchio Continente. Se questo verrà giudicato come un prezzo troppo alto da pagare, allora l’“Action plan for the European Steel Industry”, la cui redazione sotto l’egida del Commissario Antonio Tajani è prevista entro fine giugno, dovrà divenire un vero e proprio “industrial compact”, introducendo misure concrete di politica industriale che guardino al settore dell’acciaio in prospettiva strategica.

Le misure più urgenti

Molteplici sarebbero i nodi da sciogliere, tanti da richiedere una riflessione di più ampia portata. Tre su tutti vanno certamente segnalati: l’accesso alle materie prime; lo stimolo della domanda d’acciaio europeo; la revisione della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato. In primis andrebbe affrontato il problema delle materie prime – ad esempio stimolando investimenti minerari nei Paesi in via di sviluppo, supportati dalla Bei (soluzione peraltro già considerata dalla “Raw Materials Initiative”), al fine di ridurre la dipendenza delle imprese europee dal cartello del minerale di ferro. Un ruolo chiave, dovrebbe poi essere attribuito a iniziative volte a dare nuova linfa alla domanda – finanziando piani europei per investimenti infrastrutturali e incentivando le produzioni basate su “acciaio verde”, ovvero che incida meno in termini di emissioni di CO2, proprio come l’acciaio europeo, la cui produzione è regolata dall’Emission Trading System. Una più attenta analisi dovrebbe, infine, riguardare il tema degli state aid, rivalutando alla luce della crisi attuale l’adeguatezza dei molteplici divieti previsti per il settore dell’acciaio, orfano di uno strumento di programmazione strategica come la Ceca.
La partita dell’Ilva è anche la partita dell’acciaio europeo. La partita dell’acciaio europeo è una partita sulla quale misurare il futuro dell’Europa.

Cesare Pozzi
professore di Economia industriale, Università di Foggia e Luiss “Guido Carli”


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