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La bacchettata di Papa Francesco ai leader del G8

La tirata d’orecchi ai potenti della terra riuniti a Lough Erne per il G8 è arrivata per le vie ufficiali. Ma sonora come sa essere quella di chi si muove con i piedi felpati della diplomazia.

Nella lettera che Papa Francesco ha inviato al premier inglese David Cameron e, per mezzo di lui, agli altri capi di Stato e di governo impegnati ieri e oggi nelle midlands settentrionali dell’Irlanda del Nord in uno dei vertici più attesi, non è mancata l’attenzione al problema del conflitto siriano, entrato in una spirale di violenza che in questi giorni si è andata acutizzando e che ha prodotto almeno 93 mila morti (stime Onu) dall’inizio delle ostilità tra ribelli e sostenitori del regime di Assad.

Bene dunque l’attenzione alle “tre T”, taxes, transparency and trade, che per combattere l’evasione fiscale e assicurare la trasparenza nelle attività politiche e commerciali e la responsabilità dei governanti, dice Francesco, “puntano alle radici etiche profonde dei problemi”, ma senza dimenticare il contesto in cui tutto si deve muovere. Cioè la pace internazionale.

Per la Siria, ha proseguito il Papa, “auspico che il summit contribuisca a ottenere un cessate il fuoco immediato e duraturo, e a portare tutte le parti in conflitto al tavolo dei negoziati”. Non una generica dichiarazione d’intenti o un blando richiamo alle responsabilità di ognuno, ma una indicazione precisa sui passi da compiere secondo le regole del diritto internazionale: fine delle ostilità e avvio di una conferenza di pace. Perché la pace “esige una lungimirante rinuncia ad alcune pretese”, e perché essa “è un requisito indispensabile per la protezione delle donne, dei bambini e delle altre vittime innocenti, nonché per iniziare a debellare la fame”.

E proprio la prospettiva di una qualche “rinuncia” a interessi personali, strategici o geopolitici che siano, lascia più di una perplessità sul fatto che Obama, Letta & Co. riescano ad andare oltre una generica dichiarazione in cui si dice tutto per non dire niente, e a non disattendere quindi gli auspici del Pontefice. Anche per non infastidire l’ “amico russo”, Vladimir Putin, presente al vertice e in grado di vantare un peso specifico su Damasco tra i più rilevanti.

Che l’attenzione della Chiesa verso la Siria e, in generale, il Medio Oriente sia costante è cosa nota. Tanti gli interessi in gioco, da quelli religiosi a quelli più politici, che toccano la vita e la libertà dei cristiani presenti nell’area. Aspetti che non hanno mancato, soprattutto in passato, di ritorcersi contro la stessa Santa Sede, accusata di avere tollerato – o talvolta guardato con benevolenza – regimi dittatoriali, come quello di Saddam Hussein in Iraq o, appunto, di Assad in Siria, perché promettevano una qualche forma di tutela alle comunità cristiane là residenti.

Non mancheranno di parlarne fino al 20 giugno anche i delegati riuniti in Vaticano per la 86° assemblea della Roaco (Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali) dedicata proprio alla situazione dei cristiani e delle Chiese in Egitto, Iraq, Siria e Terra Santa. L’organismo, nato nel 1968 per volontà di Papa Paolo VI all’interno della Congregazione per le Chiese orientali, oggi presieduta dal cardinale prefetto Leonardo Sandri, e che comprende i rappresentanti delle agenzie impegnate nel sostegno delle Chiese cattoliche orientali, avrà ovviamente tra i suoi principali temi di discussione il teatro di guerra siriano.

Ma, per rimanere al presente – e senza scomodare il ruggito wojtyliano “mai più la violenza, mai più la guerra, mai più terrorismo” dopo l’attentato alle Torri Gemelle e alla vigilia della guerra in Iraq – netto è stato nei giorni scorsi lo stesso Francesco. “La guerra è il suicidio dell’umanità”, ha detto, per ribadire di lì a poche ore in maniera ancora più perentoria: “tacciano le armi!”.

In proposito, la necessità di un percorso di pace è stata ribadita anche dall’arcivescovo greco melchita di Aleppo monsignor Jean-Clement Jeanbart che, sulla scia della lettera di Francesco, si è fatto sentire dai partecipanti al vertice di Lough Erne: “abbiamo bisogno di dialogo, non di armi”.
Certo gli scenari al momento non sono dei migliori, ed è difficile pensare a rapidi cambiamenti, se si torna a parlare addirittura di guerra fredda, con gli Stati Uniti ad appoggiare i ribelli anti-Assad, e tradizionalmente i regimi sunniti e l’Arabia Saudita; e la Russia a sostegno della Siria e dei “guardiani della rivoluzione” iraniani e sciiti, grandi sponsor di Damasco, proponendo, com’è consuetudine in Medio Oriente, una frattura che mescola aspetti religiosi e politici. Una storia, quella della guerra fredda, fatta di liturgie proprie, schermaglie più o meno sanguinose, momenti di crisi e minacce di nuove guerre globali, giocata sul filo del terrore per quasi un cinquantennio.

Così, nonostante le difficoltà che la nuova presidenza Putin affronta sul piano interno, può diventare proprio Mosca una pedina fondamentale per la soluzione di una delle pagine più nere della storia recente, che vede la comunità internazionale, prima trascinata dal fascino delle cosiddette primavere arabe, oggi inspiegabilmente (o forse spiegabilmente, a seconda del quadrante geopolitico da cui la si guarda) incapace di una qualsiasi mossa di fronte a quanto avviene sulle rive dell’Eufrate.

E chissà che un ruolo non possano giocarlo le due Chiese, quella cattolica e quella ortodossa, che, superati i periodi della diffidenza sotto la guida del patriarca Alessio II, sembrano ora aver trovato una via armonica per costruire un percorso di riavvicinamento. Molto aveva lavorato in tal senso Benedetto XVI, che aveva addirittura accarezzato l’idea, poi accantonata, di uno storico incontro a Mosca con il nuovo patriarca Kyrill. Sembra che le diplomazie siano al lavoro perché possa riuscirci Francesco, aprendo così una nuova epoca, e non solo per il cristianesimo. 


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