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La corsa dei salari porta l’inflazione alle porte di Berlino

Diranno che è colpa della Bce, magari. Delle politiche (pseudo) espansive che il povero Draghi s’inventa per dare fiato ai Pigs (o ai Gipsi, come si chiamano ora). Di consenguenza diranno che, alla fine, è colpa nostra. Mentre sta semplicemente succedendo quello che era facile prevedere: ossia che prima o poi la Germania sarebbe stata vittima del suo successo.

Il Grande Mostro, lo spauracchio del tedesco medio – l’inflazione – inizia a mordere i polpacci muscolosi della Germania. E, checché ne diranno, non è colpa della Bce.

No, la moneta non c’entra niente. E’ tutta colpa del benessere.

Succede, infatti, quello che era facile prevedere che sarebbe successo: i salari stanno aumentando, e, di conseguenza, il peso relativo della domanda interna sul prodotto e sul livello generale dei prezzi. Ma, cosa ancor più rilevante, sta mutando la dinamica del costo del lavoro tedesco, il grande fattore del successo dell’export germanico nei primi anni 2000. Ormai da anni il costo del lavoro cresce. Anche in questo Cina e Germania si somigliano.

I dati arrivano da due tedeschissime entità, come l’ufficio centrale di statistica e la Bundesbank.

Il primo ci dice che nel primo trimestre del 2013 il costo del lavoro orario è aumentato del 3,9% rispetto al primo trimestre 2012, il più alto valore dal secondo trimestre del 2009 e il secondo risultato più rilevante dall’inizio delle serie statistiche del 1997.

La cosa interessante è che tale aumento di costo si è distribuito fra il +3,5% sulle retribuzioni lorde e il 5,3% in più sui costi non salariali, ossia gli oneri sopportati pure in mancanza di prestazione. Nel primo trimestre 2013, infatti, c’è stato una notevole incidenza del costo delle ore per malattia. Non ci crederete, ma si ammalano anche loro.

Il dato del primo trimestre diventa ancor più interessante se si fa il confronto con gli altri partner dell’eurozona.

La media europea di incremento del costo del lavoro fra il 2011 e il 2012 è stata dell’1,6%, a fronte del 2,7% tedesco. Il costo del lavoro in Germania è cresciuto più della Francia (2%), del Belgio (2,6%) e dell’Olanda (+0,8%), ossia dei suoi colleghi dei paesi forti. Questo mentre i salari dei Gipsi crollavano.

La Grecia archiviava un calo dell’11,1%, l’Irlanda un aumento dell’1,3, l’Italia di un risicato 1%, mentre la Spagna segnava un calo dello 0,2% e il Portogallo addirittura dell’8,7%.

La crescita del costo del lavoro tedesco, in pratica, è stata la più alta dell’eurozona.

Per trovare incrementi più elevati bisogna uscire dall’Ue a 17 ed entrare in quella a 27.

Buon per loro, viene da dire.

Senonchè sulla gioia dei salariati tedeschi s’erge severo il cipiglio di mamma Bundesbank. Alla questione del mercato del lavoro la banca centrale ha dedicato un paio di paragrafi del suo outlook mensile di giugno, dove leggiamo alcune considerazioni interessanti.

La prima è che le imprese tedesche, malgrado la congiuntura asfitica, hanno fatto parecchie assunzioni negli staff nell’ultimo trimestre 2012. Inoltre scopriamo che “l’alto livello di immigrazione sta compensando le carenze del mercato del lavoro tedesco”.

Almeno la nostra austerity serve a qualcuno.

Tanto è vero che la Banca nota come “a causa della difficile situazione del mercato del lavoro nei
paesi in crisi della zona euro e il gap di prosperità nella parte orientale dell’Europa centrale, la Germania probabilmente continuerà ad avere saldi attivi di migrazione sostanziali nei prossimi anni”. Il che è una boccata d’ossigeno per un paese che fa pochi figli e con l’età media fra le più alte d’Europa.

Il problema è che questa politica largheggiante di assunzioni, e quest’attrattività del mercato tedesco per i lavoratori, si inseriscono in un trend crescente di costo del lavoro che, nota sconsolata la Bundesbank ”sta avendo un impatto molto importante sul trend generale dell’economia”.

Infatti, “il forte aumento dei costi salariali unitari è previsto compromettere i margini delle imprese, aumentando la quota dei redditi da lavoro sul prodotto”. Il che sembra astruso ma ha un chiaro significato: l’aumento del costo del lavoro significa che le imprese guadagneranno meno e i lavoratori di più.

E poiché è molto più probabile che tanti lavoratori spendano i propri soldi assai più che poche aziende i loro ampi profitti, ecco che la domanda interna (ed esterna, ma lo vedremo in un altro post) è destinata a crescere.

Detto in altre parole, si va verso un aumento ”dell’inflazione generata sul mercato interno”.

La Banca si avventura pure a stimare che, nel medio termine, una crescita dei salari del 3% conduce a un incremento del 2% dell’indice generale dei prezzi (domestic value added) che risulta dall’aggregazione dei prezzi interni con quelli esterni.

“Inizialmente – scrive la Banca – la pressione sui prezzi al consumo  sarà calante, dal 2,1% del 2012 all’1,6% del 2013 e all’1,5% dell’anno prossimo”. Ma tale calo è dovuto a fattori esogeni: il calo delle materie prime e l’assenza di pressioni inflazionistiche su, ad esempio, il mercato del cibo. “Ma escludendo l’energia, l’inflazione è prevista cresca dall’1,6 all’1,8% del 2014″.

Conclusione: “Tutto ciò è dovuto principalmente alla accelerazione dei salari, che sta facendo crescere i costi e incrementando la domanda. I fattori di costo avranno rilevanza nel settore dei servizi pubblici e privati, ma anche
nel settore retail. Gli incrementi di reddito favoriranno l’aumento degli affitti delle abitazioni”. Non si salverà nessuno, insomma, mattone in testa.

Ora ci diranno che l’inflazione in Germania è colpa della Bce, della politica espansiva del Giappone, della troppa liquidità in circolazione.

Ma è una balla.

L’inflazione per via salariale è solo la nemesi delle politiche tedesche degli ultimi dieci anni.


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