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La crisi sgretola il patto segreto fra creditori e debitori

In tempi di magra anche le intese più consolidate iniziano a scricchiolare. Il patto informale fra Grandi Debitori, Usa in testa, e Grandi Creditori, che ha retto negli ultimi decenni l’economia internazionale sembra ormai essere entrato in una crisi irreversibile il cui esito è ancora incerto, ma che può risolversi in una generale resa dei conti destinata a mutare la fisionomia del sistema finanziario.

Gli squilibri globali, semplicemente, non sono più sostenibili. Resta da capire se bisognerà attendere la prossima crisi, che sta crescendo sotto l’ondata montante della liquidità internazionale, per metterci mano o se la comunità internazionale riuscirà a trovare la chiave per prevenire la burrasca che, come dimostra l’esperienza dell’ultimo trentennio di turbolenze non potrà essere che peggiore di quella che l’ha preceduta.

Una prospettiva spaventosa.

La storia, purtroppo, induce al pessimismo. I grandi cambiamenti, infatti, sono stati sempre la conseguenza di un qualche disastro. Basti ricordare che si è arrivati alla conferenza di Bretton Woods solo dopo il secondo conflitto mondiale.

Sempre la storia ci illustra come dietro questi grandi cambiamenti ci sia sempre la vittoria di una delle due fazioni, ossia dei creditori o dei debitori. Con netta prevalenza dei primi sui secondi. Nel caso di Bretton Woods, per dire, fu la vittoria degli Usa, trionfatori nella guerra e, soprattutto, Grandi Creditori internazionali.

Ma di esempi se ne trovano a bizzeffe. Come quando negli anni Novanta del XIX secolo gli Stati Uniti passarono dal regime monetario metallico basato sull’argento a quello aureo. In quel caso i ceti agrari, legati all’argento, strutturalmente debitori e vocati all’inflazione, dovettero cedere ai ceti industriali e finanziari della borghesia, strutturalmente creditori e legati all’oro, vocazionalmente deflazionista, che ebbero la meglio.

Fu la vittoria dei creditori sui debitori. L’ennesima.

Oggi, per il momento, sono i debitori a prevalere. Gli Usa, grazie al loro peso specifico nell’equilibrio generale della forza, dettano gran parte dell’agenda internazionale.

La partita è resa più complessa dal suo livello globale e da una consuetudine ormai pluridecennale secondo la quale i creditori accordavano al debitore un grande privilegio, ossia il diritto al signoraggio internazionale, pur di garantire il loro mercato di esportazioni.

In pratica, Asia e paesi esportatori di petrolio si sono imbottiti di attivi americani in dollari, sotto forma di depositi o titoli di stati Usa. Tali risorse sono finite custodite nelle riserve, ma sono soggette a un costante salasso, visto che la crisi ha condotto a un indebolimento del dollaro, da un parte, e all’aumento dei redditi da capitale degli Usa, dall’altro, generata dall’aumento dell’emissioni di tali titoli. Tutto questo mentre il livello del commercio internazionale, che è stato finora la garanzia di tale equilibrio, cala.

La Cina è quella che paga il prezzo più alto, visto che è costretta a “sterilizzare” gli effetti inflattivi del suo corposo aumento di riserve sulla moneta nazionale vendendo titoli del debito pubblico. E ciò malgrado l’inflazione sale e sta gonfiando tutti gli asset interni. A cominciare dal mattone, i cui prezzi nell’ultimo anno sono saliti del 16%.

Gli ultimi dati disponibili della bilancia dei pagamenti cinesi confermano questo lento decadimento. Malgrado la Cina abbia una delle posizioni nette internazionale sugli investimenti più alte del mondo (Niip), pari a 1.800 miliardi di dollari, sulla parte corrente della bilancia leggiamo che i redditi da investimento, diretti e di portafoglio, nel 2011, sono stati negativi per 85,3 miliardi di dollari. Assai peggio dei 26,3 miliardi previsti. Questo, mentre per il 2012 si prevede un ulteriore deficit di 57,4 miliardi.

In pratica la Cina vive il miracolo contrario che abbiamo visto valere per gli Usa. Costoro hanno una Niip in deficit per oltre 4.000 miliardi di dollari, che però genera un reddito netto da investimenti sulle partire correnti. La Cina, che ha una posizione netta ampiamente positiva, genera invece redditi da investimenti negativi.

Così come gli Usa campano di rendita grazie ai loro debiti, i cinesi vengono affamati dai loro crediti.

Usque tandem Catilina?

I motivi di tale miracolo al contrario sono diversi. Gli asset esteri della Cina, circa 4.700 miliardi, sono denominati quasi esclusivamente in dollari. Al contrario le passività estere sulla Cina sono denominate in renmimbi. Quindi quando il dollaro cala (o lo Yuan sale) la Niip si erode.

Se si dovesse arrivare a una piena internazionalizzazione dello Yaun, ossia alla convertibilità, tale situazione non potrebbe che peggiorare per i cinesi. Che infatti nicchiano, anche se è circolata la voce che ci si dovrebbe arrivare entro il 2015. Quello che potrebbe essere l’anno del redde rationem.

Poi c’è un secondo aspetto meno finanziario e più industriale. La Cina ha registrato un saldo di 2.600 miliardi di dollari di investimenti diretti dell’estero, nel 2011. Tali investimenti, che sono un debito (segno più sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti), devono essere remunerati (segno meno sulla parte corrente alla voce redditi). Il problema è che questi investimenti hanno un alto ritorno per gli investitori esteri. Si calcola nell’ordine del 33% per le corporation americane e del 22% per le altre.

Tutti vanno in Cina a fare le fabbriche perché il lavoro costa poco. Il governo accoglie volentieri gli ospiti. Salvo poi dover pagare il conto. Tutto ciò, lentamente, sta scavando la fossa all’economia cinese.

Chi di lavoro a basso costo ferisce…

Di fronte a questa situazione, anche i quasi 3.900 miliardi di dollari di riserve registrate nella bilancia dei pagamenti cinese nel 2011 sembrano poco più di un salvagente provvisorio, soggette come sono alle turbolenze dell’economia americana. Senza considerare che la crisi ha pure indebolito la fonte principale del benessero cinese, ossia l’export.

La domanda a questo punto è semplice. Cosa faranno i Grandi Creditori per difendere la loro ricchezza faticosamente conquistata?

Dalla Cina è arrivata una prima risposta, che è anche un’indicazione, l’agosto scorso. Lo yuan, se e quando sarà convertibile, sarà regolato in rapporto a un paniere di valute, non direttamente col dollaro.

A buon intenditor…



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