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La democrazia è in crisi?

Questa domanda se l’è posta, tra i tanti, Wolfgang Merkel, professore di Scienza Politica presso la Humboldt Universität di Berlino e direttore del progetto di ricerca “Demokratie und Demokratisierung” presso il WZB, uno dei più importanti centri di ricerca sociale in Germania.

L’articolo intitolato “Gibt es eine Krise der Demokratie?” risale al marzo 2013.

In questo articolo il prof. Merkel si chiede che senso ha parlare di “crisi” della democrazia e soprattutto che senso ha parlare di “democrazia”. Merkel spiega che i concetti “democrazia” e “crisi” sono i più usati (o abusati) nelle scienze sociali e anche nel discorso pubblico.

Si parla di crisi, ma non si dice quando iniziano e quando finiscono, se finiscono. Si parla di crisi della democrazia, ma questo concetto  “umstritten” ossia controverso. La democrazia è liberale, socialista, conservativa, pluralista, elitaria, cosmopolita e via dicendo. Anche i teorici della scienza politica e della democrazia si collocano in posizioni talvolta distanti. Merkel contrappone tre modelli di teorie della democrazia: quella minimalista à la Schumpeter (1942), che fa coincidere il nucleo della democrazia con le elezioni, le quali rappresentano la democrazia stessa; quella massimalista che fa coincidere la democrazia con i risultati della politica nell’ambito del progresso sociale e dell’affermazione dei principi di giustizia e in ultimo il filone che si muove tra un estremo e l’altro, i “mittlere” (che stanno in mezzo).

L’articolo mi ha interessato molto dal punto di vista dell’approccio di ricerca e di riflessione critica, più che dai contenuti (sono ribadite la complessità del concetto di democrazia e il distinguo tra vari approcci di analisi teoretici ed empirici). Merkel propone di riflettere sul concetto di “crisi” e dell’uso che le scienze sociali ne fanno da decenni. La crisi è connaturata alla democrazia. C’è sempre una crisi che identifica un momento preciso del processo di democratizzazione, cambiano i modi con cui la definiamo. Colin Crouch, per esempio, parla di “post-democrazia”, di una forma sempre democratica e quindi non dittatoriale di politica che però ha perso molti dei suoi contenuti tradizionali, a seguito di trasformazioni sociali e culturali molto profonde.

Partendo da queste considerazioni teoriche, Merkel, propone di analizzare la “crisi della democrazia” partendo da un’analisi della partecipazione politica, della rappresentanza e degli effetti della governance (Regierungshandelns).

Nel suo articolo viene messa in evidenza una tendenza generale nelle democrazie occidentali e in alcuni stati dell’est europa, che ci consente di rivalutare quanto accaduto nelle recenti elezioni politiche ed amministrative anche in Italia. Si è parlato, anche qua, io per primo, di una “perdita” e di un “fallimento” (altri modi per parlare di crisi) della Politica. Eppure la tendenza è generalizzata e altrove è anche più aspra.

In Germania, per esempio, dal 1975 al 2012, la percentuale di colore che partecipava alle elezioni politiche è passata da una media dell’82% ad una del 72%. Nell’Europa dell’Est, invece, nel 1991 la media era del 72% ed oggi si assesta al 55%. A grande sorpresa, sono gli Stati Uniti a registrare la perdita maggiore di livelli di partecipazione, infatti, negli ultimi anni la media di coloro che hanno votato si è attestata al 44%.

Se paragoniamo questi dati con quelli italiani allora possiamo dirci anche fortunati. Gli italiani stanno manifestando un grande disagio, che non posso che definire “crisi”, malgrado convenga in pieno con le critiche mosse da Merkel nel suo articolo. Ma negli ultimi cinque anni l’affluenza alle urne in Italia ha subito un calo drastico che deve allarmare soprattutto i politici e le istituzioni (e naturalmente anche gli italiani stessi).

Il secondo aspetto da tenere a mente per comprendere meglio questo calo consistente e progressivo di partecipazione attiva dei cittadini alla scelta dei propri rappresentanti è proprio il ruolo dei grandi partiti del passato.

Scrive Merkel che con le trasformazioni della società sono cambiate anche le masse e dunque anche i partiti che le rappresentano. Va da sé che quello che era accattivante nel dopoguerra oggi non ha più la stessa capacità di convincimento. La società non è più quella degli anni cinquanta.

Gesellschaften verändern sich – und damit auch ihre kollektive Organisationsbereitschaft. Die klassischen Massen – und Volksparteien mit ihren hohen Mitgliedszahlen und cath all-Programme drohen in den individualisierten Gesellschaften anachronistisch zu werden (…) In den letzen fünf Jahrzehnten sank der durchschnittliche Wähleranteil der Volksparteien Westeuropas von 60 auf 40 prozent.“

In questo piccolo passaggio viene spiegato proprio come al cambiamento della società (Gesellschaft) e delle masse (Massen) sia corrisposto un indebolimento dei grandi partiti del passato (Volksparteien) quelli con alti livelli di iscrizione (Mitgliedszahlen). La capacità di attrarre consenso da parte di questi partiti si è affievolita e spesso i partiti stessi si sono disgregati (si pensi alla DC o al PCI in Italia).

Con questi profondi cambiamenti nel tessuto sociale, la democrazia può essere ancora concepita allo stesso modo di cinquant’anni fa? I partiti possono restare ancora così come li abbiamo conosciuti fino ad oggi? Il problema è dunque più di organizzazione dei partiti che di contenuti o valori? La democrazia è ancora da intendere come espressione del potere del popolo (tutto) o sta tornando ad essere una forma quasi oligarchica dove pochi decidono per molti, e soprattutto dove pochi si interessano a quello che pochi decidono?

Su queste domande mi propongo di ragionare meglio in altre occasioni. Concludo dicendo che parlare di “crisi” è forse sì troppo “banale” ma è un modo efficace per porre l’attenzione su una tendenza che personalmente mi preoccupa.

Sono convinto che sia importante riconquistare consenso e partecipazione, perché questo significa dare ad una parte maggiore di persone il potere di decidere e di influire sulle scelte di quei pochi che andranno a governare il Paese.

I partiti devono comprendere la società che vogliono rappresentare e questo, a mio modestissimo avviso, è possibile solo se si modifica la qualità dell’offerta politica e si trovano i contenuti coerenti con i tempi e con le esigenze. Penso che la struttura partitica tradizionale non abbia ancora perso la sua efficacia. Non c’è bisogno di una distruzione, ma di una restaurazione. Non c’è bisogno di una maschera o di un buon make-up (penso al tentativo di ritornare a Forza Italia da parte di Berlusconi), bensì di un ripensamento radicale dell’idea di azione politica.

Come sia possibile tutto questo? Direi che è un capitolo ancora tutto da scrivere.


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